Dalle Nike alla crisi climatica

Dalle Nike alla crisi climatica

Una scritta su un muro svela che ci stiamo adattando ad una logica che nega la nostra umanità


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Dalle Nike alla crisi climatica

“Mi piaci più delle Nike”, è scritto su un muro, in Italia. Non sappiamo, né vogliamo saperlo, se a scrivere questa frase (d’amore?) sia stato un lui a una lei, una lei a un lui, una lei a una lei o un lui a un lui (non escludendo altre ipotesi). Contiene un confronto – mi piaci più rispetto a qualcosa che vale di meno – e questo è comunque segno di un ragionamento, un processo oggi non così scontato. E però a inquietare è con cosa viene fatto il paragone – un paio di scarpe, un logo-brand-feticcio; cioè, mi piaci più di un paio di scarpe/brand. 

Per chi un tempo paragonava la persona amata a una stella o alla propria esistenza (mi piaci più della mia vita), essere confrontati a un paio di scarpe dovrebbe essere un insulto, degno di provocare (giustamente e bruscamente) la rottura della relazione. Certo, sarebbe stato peggio se fosse stato scritto: Mi piaci come le Nike. Ma per chi invece vive in un mondo di merci, a sua volta mercificato; per chi esiste solo in quanto parte di un mondo di feticci-merce, questo confronto tra lui/lei/altro e un paio di scarpe è una cosa diventata evidentemente normale. Chi l’ha scritta è appunto ormai diventato ancora di più una merce che vive in un mondo di merci e che concepisce le relazioni tra le persone attraverso le cose/merci/feticci (e già Marx diceva qualcosa in proposito…). Altrimenti non avrebbe scritto quella frase, che uccide in cinque parole secoli di umanesimo e di romanticismo.

È il capitalismo, appunto: diventato ormai una forma/norma di vita, un sistema di simboli e di immaginari chiusi – oltre che un sistema economico. O meglio: ha imposto la sua forma e la sua norma di organizzazione alla vita intera dell’uomo e cioè: produrre-consumare-produrre-consumare; reificare e mercificare; alienare e alienarsi; sfruttare e auto-sfruttarsi; accelerazione invece di riflessione; fare e non pensare, delegando tutto alle macchine/algoritmi; competenze invece di conoscenza; social invece di socialità; egoismo invece di solidarietà; accrescimento invece di sostenibilità e responsabilità; guerra invece di pace; eccetera. 

Oggi tutto è mercato: del lavoro/consumo e della vita attraverso il mercato dei dati, delle emozioni, delle relazioni, dell’informazione, della cultura, eccetera eccetera; tutto è concorrenza e competizione, dove la guerra di tutti contro tutti dello stato di natura – superato un tempo dal contratto sociale – è stato recuperato e soprattutto istituzionalizzato dal tecno-capitalismo/neoliberismo; tutto è merce, soprattutto noi stessi; e tutti siamo nodi integrati (organizzati, comandati e sorvegliati) nella rete, che è l’ultima fase del tecno-capitalismo nella sua incessante rivoluzione industriale.

Ma facciamo un passo oltre. E richiamiamo una inchiesta del Guardian (in italiano, sul numero 1466 di Internazionale), secondo la quale: “Le più grandi aziende di combustibili fossili del mondo stanno preparando decine di carbon bomb (bombe di carbonio), progetti di estrazione di petrolio e gas che farebbero aumentare la temperatura globale ben oltre i limiti fissati a livello internazionale, con effetti catastrofici. I dati mostrano che queste industrie stanno facendo scommesse multimiliardarie contro la lotta al riscaldamento globale […] lanciando progetti che produrranno una quantità di gas serra equivalente a dieci anni di emissioni di anidride carbonica della Cina, la più grande inquinatrice del mondo. […] Da oggi al 2030 le dodici maggiori aziende energetiche spenderanno 103 milioni di dollari al giorno per sfruttare nuovi giacimenti di petrolio e gas. Circa il 60% di questi progetti è già attivo”. 

Ovvero, il capitalismo fossile – in nome del proprio profitto privato – se ne frega (e me ne frego era una parola chiave del fascismo italiano) dell’ambiente, del clima, del futuro, delle prossime generazioni, delle decisioni e degli impegni internazionali assunti dai governi (già molto ammorbiditi proprio dall’azione delle lobby del fossile); e decide del nostro futuro e dei nostri figli e nipoti a prescindere da noi, dalla responsabilità, dalla sostenibilità, dall’etica. Come chiamare tutto questo, se non crimine contro l’umanità, da giudicare in un tribunale penale internazionale al pari della Russia di Putin? Eppure, di questo nessuno o pochissimi parlano (grazie dunque al Guardian), perché al capitalismo, si dice, non ci sono alternative. E dobbiamo solo adattarci.

Già, adattamento – anche alla crisi climatica. Non cerchiamo la sua risoluzione rapida, investendo in fonti rinnovabili, in risparmio energetico, nella transizione ecologica, in un cambio di paradigma produttivo e consumativo. No, adattamento è la nuova parola chiave sempre più usata dai media e dai politici mainstream – che sono parti della sovrastruttura del tecno-capitalismo – che in verità proprio non ci pensano a una autentica transizione ecologica; e anche la guerra di Putin – che è padrone di enormi riserve di energie fossili e che certo neppure lui vuole una transizione verso la sostenibilità – è in fondo l’occasione ghiotta per rinviare scelte che invece sono sempre più urgenti. Adattamento è dunque il mantra che dobbiamo introiettare e recitare, rassegnandoci al cambiamento climatico e a ciò che produrrà, accontentandoci di un po’ di green economy (che molto spesso è solo green-washing). 

Come ieri la parola chiave che abbiamo dovuto fare nostra era condividere via rete, altrimenti non avremmo prodotto il Big Data che serve al capitale per farci produrre e consumare sempre di più, così oggi dobbiamo introiettare la parola adattamento al mutamento climatico, sempre per non mettere in discussione il modello ecocida in cui viviamo. E adattamento è parola chiave del pensiero liberale. Come bene espresso dall’americano Walter Lippmann nel 1938, quando venne rifondato appunto il liberalismo, che qui riprendiamo e che scriveva: la filosofia neoliberale è “l’unica filosofia che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”. Quindi: “il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo”. 

E infatti, nel nostro mondo, tutto – diritto, lavoro, formazione e long-life learning, educazione, management, marketing, pubblicità, retoriche sul capitale umano e sull’imprenditivitàtutto è finalizzato a produrre questo nostro continuo e sempre più flessibile adattamento (changeability) alle esigenze della rivoluzione industriale e del capitalismo, noi convincendoci che questo nostro saperci adattare sia il massimo della virtù umana, che valorizzare il nostro capitale umano sia un dovere civico, come aveva scritto l’ex direttore del Corriere della sera e de Il sole 24 ore, Ferruccio de Bortoli. 

E oggi, adattamento anche al cambiamento climatico. Importante, appunto, è non fermare mai il profitto (privato) e la rivoluzione industriale. E se la Terra muore poco importa, perché il capitalismo, come scriveva più di un secolo fa il grande sociologo Max Weber (1864-1920) “determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica”.

Noi che ci adattiamo dimentichiamo però – ma questo nostro dimenticare è l’esito di una pedagogia tecno-capitalista che inizia a lavorare su di noi e dentro di noi fin da piccoli – che un uomo che si adatta non è mai libero; che adattarsi è la negazione del libero arbitrio; e che porre le esigenze della rivoluzione industriale – delle imprese e del capitale – come prevalenti su ogni altro scopo di vita individuale e sociale è la negazione stessa della democrazia e della libertà – e soprattutto, dell’uomo come essere umano.

Nell’immagine: illustrazione di Joao Cardoso

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