Il linguaggio del lavoro – Terza parte

Il linguaggio del lavoro – Terza parte

Globalizzazione, povertà laboriosa e monetarizzazione delle parole in un mondo terziarizzato


Christian Marazzi
Christian Marazzi
Il linguaggio del lavoro – Terza parte

L’idea del primato del linguaggio e della comunicazione nell’attuale sistema produttivo di beni e servizi andrebbe estesa al funzionamento del sistema monetario e finanziario. D’altronde, se il linguaggio è oggi una dimensione fondamentale del valore economico, ne consegue che il denaro, che è l’espressione astratta del valore, deve a sua volta avere una valenza linguistica. È quanto sostiene ad esempio Arjun Appadurai nel suo Scommettere sulle parole (2016) analizzando la logica di funzionamento dei mercati dei prodotti derivati che portarono alla crisi del 2007-08. Appadurai non nega che l’avidità e un trattamento irresponsabile del rischio siano stati fattori decisivi della crisi dei subprime, ma sostiene che la condizione di possibilità di quei vizi strutturali vada ricercata nel ruolo nuovo che il linguaggio ha assunto nei mercati finanziari. In effetti, l’analisi dei prodotti derivati[1] come catena di promesse riferite a un futuro incerto, permette di far emergere l’importanza del linguaggio e del concetto di rischio negli attuali mercati finanziari. Per l’Autore, il collasso del sistema finanziario statunitense nel biennio 2007-2008 è così ascrivibile a un cedimento linguistico, alla catena di promesse di guadagno aleatorio non mantenute.

Più in generale, la teoria monetaria ha oggi tutto da guadagnare dal dialogo con la filosofia del linguaggio, in particolare con la teoria degli enunciati performativi di John Austin, autore di un libro il cui titolo è già tutto un programma: Fare cose con le parole, L’idea di questo filosofo del linguaggio è che con le parole si possono fare cose, crearle dicendole, e non solo descriverle[2]. È l’idea secondo cui gli atti linguistici sono in grado di modificare stati di cose. Un’idea ripresa pari pari dalla Federal Reserve, se è vero, come Janet Yellen ebbe a dire appena eletta presidente della Banca centrale, che è dal 2003 che la Fed usa la comunicazione – “mere parole” – come suo principale strumento di politica monetaria[3].

In ogni caso, che la parola sia sempre più simile alla moneta lo si può facilmente dedurre dall’inflazione linguistica (vera e propria escalation delle parole) che caratterizza il tempo presente. Con la proliferazione di parole, con la guerra di narrazioni che ci stordisce, l’aumento quantitativo delle parole in circolazione non può che portare alla perdita di valore delle parole stesse. Sappiamo anche che la velocità di circolazione delle menzogne è di gran lunga più elevata di quella delle verità. Se poi ci si mettono anche i falsari con la lucrosa tosatura delle parole-monete, allora è chiaro come il contenuto di valore, di significato, delle parole si stia assottigliando rapidamente. Insomma, come per la moneta, anche per le parole vale la legge di Gresham, secondo cui “la moneta cattiva scaccia quella buona”[4].

Non ci resta quindi che ascoltare nel più profondo le parole, come suggeriva Heidegger: ascoltare le parole con cura e circospezione per cercare di rintracciare qualcosa che si avvicini alla verità. E ascoltare le parole significa ascoltare il lavoro: qui volevamo arrivare.

Cosa ci dice il lavoro? Il lavoro ci dice che siamo soggetti di diritti, di diritti sociali, e dovremmo esserlo per il sol fatto di esistere. Ma così non è perché per ogni diritto occorre lottare. La ricostruzione della storia dei diritti civili, politici e sociali, la storia dello “sviluppo della cittadinanza” in un’ottica evolutiva come in T.H. Marshall (conferenza del 1949) è stata smentita dalla storia stessa, di sicuro da quando il mercato e la sua presunta capacità di autoregolazione si è imposto al di sopra di tutto, di tutti. Come ha scritto Albert Hirschman: “Non è forse vero che non già soltanto l’ultima, ma ciascuna delle tre spinte in avanti di Marshall è stata seguita da controspinte ideologiche di straordinaria forza? E non è forse vero che queste controspinte sono state all’origine di violentissime lotte politiche e sociali, spesso sfociate in rovesci per i programmi progressisti, oltre che in gravi sofferenze e miserie per gli esseri umani?” Il lavoro ci dice che l’uomo fa per non-fare, lavora per non lavorare. L’uomo produce, esercita le sue virtù utili e pratiche, per potersene stare in ozio. I sistemi politici migliori saranno quelli che riconoscono questo principio del fare, e lo ordinano pertanto in vista dello starsene in pace e in ozio. Il migliore generale lavorerà per la pace; il migliore artigiano per guadagnarsi la possibilità dell’ozio. D’altronde, la radice di necotium, che vuol dire esser dediti ‘ad altro’, è otium[5]. D’altronde, una volta creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, Dio letteralmente smette di lavorare, e si gira dall’altra parte. Shabat (shuh.bat) è il giorno (la festa) della cessazione del lavoro. Il riposo ne è certo un’implicazione, ma non è necessariamente una connotazione della parola stessa. Occorre riappropriarsi di questo tempo non solo per riposarsi, ma per la cura di sé e degli altri, il tempo liberato dal fare deve tornare ad essere il tempo degli affetti, dell’amore, del disinteresse, del non-calcolo, il tempo del ritornare in sé (come titola uno splendido libro di Fabio Merlini).

Il lavoro ci dice che occorre dare senso a ciò che si fa, a maggior ragione alla fine di un tempo durato troppo a lungo durante il quale siamo stati prigionieri di norme e valori iperproduttivisti, un tempo attraversato da frequenti forme di bassi salari e di scarsa considerazione e rispetto per il lavoro e la vita altrui. La Grande dimissione, The Great Resignation, il movimento pandemico che vede milioni di uomini e donne esodare/dimettersi da lavori svalorizzanti, umilianti e massacranti, quel movimento che si è diffuso negli Stati Uniti, come anche in Cina e in Europa, è un movimento di ri-significazione del lavoro, di ricerca di occupazioni più eque, più giuste, più rispettose dei bisogni vitali delle persone.

A suo modo, la ricerca, l’attività scientifica che ci accomuna, è una forma di esodo, un esodo semantico, se si vuole, una uscita (un exit hirschmaniano), una defezione da categorie e significati normativi dati per acquisiti e irreversibili, e proprio per questo opprimenti. “Soltanto chi apre una linea di fuga, può fondare; ma, viceversa, soltanto chi fonda, riesce a trovare il varco per abbandonare l’Egitto”[6].

Questo ancora ci dice il lavoro, e cioè che poter significare e dare senso alla propria attività di ricerca occorre lavorare sul divenire delle cose, dei fenomeni, del mondo. Solo la tendenza è reale, solo la ricerca di ciò che tende al futuro fonda il presente. Per questa ragione il lavoro del ricercatore è destinato/condannato ad essere inattuale, come sospeso nel tempo del non più e non ancora. Ma, come ricorda Wittgenstein: “Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto”.

Questa è la terza parte del testo della Lectio magistralis tenuta da Christian Marazzi il 24 maggio 2022, in occasione del commiato dall’insegnamento presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della SUPSI
Nell’immagine: street art di Rizek a Barletta

[1] I prodotti derivati si chiamano in questo modo perché il loro valore deriva dall’andamento del valore di una attività ovvero dal verificarsi nel futuro di un evento osservabile oggettivamente. Le attività, ovvero gli eventi, che possono essere di qualsiasi natura o genere, costituiscono il “sottostante” del prodotto derivato.

[2] Un esempio di speech act: l’espressione “prendo questa donna come mia legittima sposa” non descrive un fatto già dato, ma lo crea mentre si parla, mentre lo si enuncia.

[3] «On that date [August 12 2003, the moment when the Fed started issuing regular statements] the Federal Open Committee started using communication – mere words – as its primary monetary policy tool» (Janet Yellen, neopresidente della Federal Reserve, citata da Gillian Tett, “Central bank chiefs need to master the art of storytelling”, Financial Times, 23 agosto 2013).

[4] Secondo questa relazione, se in un paese circolano due diverse monete aventi lo stesso valore nominale ma un diverso valore intrinseco, il pubblico tenderà a conservare la moneta che ha un maggior valore intrinseco e ad utilizzare, cioè spendere, l’altra.

[5] Massimo Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano, 1990, p. 429.

[6] Paolo Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Macerata, Quodlibet, 2015, p.131.

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