Il fallimento del pacifismo  o il trionfo  della guerra di predazione

Il fallimento del pacifismo o il trionfo della guerra di predazione


Silvano Toppi
Silvano Toppi
Il fallimento del pacifismo o il trionfo...

Si può, si dovrebbe, vedere anche l’altra faccia di quanto ha scritto Domenico Quirico e riportato qui. Cominciando ad esempio chiedendosi in che cosa sono ”nuove” le guerre: nella sostanza (per ciò che le genera) oppure negli accidenti (per le tecniche che usano)?

Ha scritto un caro amico, professore emerito di economia all’Università di Grenoble-Alpes: ”La guerra è un mezzo di predazione, essa è nata quando si è voluto prendere o ricuperare la fortuna (il patrimonio, il capitale) degli altri…la guerra ha sempre come volontà primaria quella di prendere ciò che hanno gli altri (v. Jacques Fontanel, L’economie des armes,1983,ed. La Découverte). E, d’altronde, in un capitalismo di competizione, dominante e serpeggiante in ogni dove, anche i giochi di potere sono inevitabilmente motivo di conflitto tanto per accaparrarsi le risorse (le materie prime, sempre più rare, necessarie, preziose e persino “nuove” nell’uso, come litio o cadmio) quanto per produrre profitti. 

Primo: riempire gli arsenali

Riprendiamoci il sempre attento ed anche profetico Karl Marx, troppo sbrigativamente accantonato, quello che riteneva le guerre come “consustanziali” (termine quasi teologico) al capitalismo: da un lato una guerra distrugge parte del capitale dei redditieri, dei possidenti; d’altro lato favorisce l’emergenza di nuovi ricchi, di nuovi affari, cominciando dai fabbricanti o dai commercianti di armi che sperimentano e prosperano sui conflitti più devastanti (quando in una sola notte, dal 13 al 14 aprile, la sola difesa internazionale contro l’offensiva iraniana su Israele ha avuto un costo stimato un miliardo e mezzo di dollari, ecco che abbiamo anche un’idea istantanea dell’esplosione … economica-finanziaria di un conflitto).

Si è discusso e informato a lungo sul tira-e-molla tra democratici e repubblicani e poi finalmente sul voto del Congresso americano per un piano di aiuto di 61 miliardi di dollari all’Ucraina, con un Zelensky che si affannava a dire in videoconferenze che il suo Paese non poteva più attendere perché mancava ormai tutto, munizioni, missili antiaerea, droni, aerei, carri armati. E un motivo era ovvio: dopo aver già dato tanto all’Ucraina (o anche ad Israele) gli stock di armi erano smagriti sia al di qua sia al di là dell’Atlantico e l’industria dell’armamento era sotto tensione (si calcola infatti che gli stock di armi potranno essere ricostituiti tra il 2025 e il 2026). Lo ha confermato il direttore della CIA, William Burns, sostenendo che durante il periodo di ricostituzione in potenza dell’industria militare occidentale, l’Ucraina deve comunque riuscire a tenere.

Secondo: arricchiamoci con l’industria delle armi

E, infatti, del pacchetto di 61 miliardi di dollari votati dal Congresso americano, non si dice che non va nella misura del 100 per cento direttamente all’Ucraina, ma che più di un terzo della somma (23.2 miliardi di dollari) è destinato al riapprovvigionamento dei sistemi d’armi e di munizioni dell’esercito americano; 14 miliardi sono invece previsti per permettere all’Ucraina di riarmarsi acquistando attrezzature e munizioni all’industria americana, mentre altri 15 sono destinati a servizi di sostegno come la formazione militare, lo scambio di informazioni, la sperimentazione di nuove tecniche.

Dunque, come l’ha d’altronde spiegato il capo dei Repubblicani al Senato, Mitch McConnel, insistendo spesso su questo punto per convincere i suoi recalcitranti, “il programma deve riaffermare l’impegno di ricostituire e di modernizzare il nostro esercito, di ripristinare la nostra credibilità e di dare al comandante in capo attuale, come al prossimo, maggiori mezzi per garantire i nostri interessi”. 

Si potrebbe tradurre: ben venuta questa guerra, che ci permette sia di crescere economicamente, sia di rinnovare e migliorare i nostri arsenali. Sia anche di migliorare la nostra posizione economica rispetto all’Europa che, in realtà ha subìto, economicamente ed anche politicamente, i maggiori costi e le maggiori divisioni per quella “santa” crociata contro la Russia.

Non dovremmo tuttavia dimenticare che anche il presidente di una grande nazione europea, Macron, capo dell’esercito e capo del capitale, ha esaltato i meriti del riarmo per l’industria francese, sostenendo ch’esso “sta producendo della ricchezza”(discorso in un’industria d’armi a Bergerac dello scorso 4 aprile). 

Come se fosse anche economicamente indispensabile che poveri innocenti o famiglie intere siano un giorno massacrate con quelle armi affinché i figli degli operai dei paesi ricchi possono avere la loro razione di carne o di patate sul piatto. E’ però ciò che un sistema riesce a far credere occultando tanto il dibattito democratico sulla vendita delle armi (povero e ingenuo papa Franccesco!), sia facendo sempre credere che per avere la pace bisogna comunque sempre passare la guerra. E l’ultimo latino che si ricorda e che torna sempre comodo, citato anche nelle stanze parlamentari elvetiche per giustificare nuovi miliardi per l’esercito, è il “si vis pacem para bellum”, se vuoi la pace prepara la guerra.

Sparate missili e avrete rendite

Facciamo, a mo’ di conclusione, tra la matematica e la follia,, un piccolo calcolo. Se il prezzo di una batteria di Patriot (che vediamo spesso nelle impressionanti immagini televisive sull’Ucraina) è valutato a circa 1.1 miliardo di dollari (400 milioni per il sistema,690 per i missili), il prezzo di un singolo missile va valutato a 4.1 milioni di dollari (è quanto calcola  appunto il Center for strategic and international studies o CSIS). Poiché quei missili li vediamo sparati a raffica, in pochi secondi, verso chi sa quale obiettivo, immaginiamoci quanti di quei milioni  distruttivi stanno preparando l’avvento di quella  speculazione ricostruttiva cui sembra già interessato il mondo intero (infatti, prossima riunione  a Basilea, a quanto pare, non per la pace, ma per discutere sulla ripartizione della torta ed anche dell’uso dei patrimoni sequestrati agli oligarchi russi per ridare avvio alla festa capitalista della ricostruzione o predazione .

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