A sparare non ci vado, per Dio!
La Corte suprema israeliana ha intimato all’esercito israeliano di coscrivere anche gli uomini ebrei ultra-ortodossi
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La Corte suprema israeliana ha intimato all’esercito israeliano di coscrivere anche gli uomini ebrei ultra-ortodossi
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La recente decisione della Corte suprema israeliana si iscrive in un contesto molto teso. Da un lato, la più alta istanza giudiziaria del Paese era stata attaccata dal primo ministro Netanyahu, che è stato largamente criticato per questo. Dall’altro, la politica dell’attuale governo israeliano dipende da una minoranza parlamentare che rappresenta gli ebrei ortodossi. Quindi, il fatto che la Corte abbia deciso all’unanimità che l’esercito debba coscrivere gli uomini ebrei ultra-ortodossi è stato letto come una specie di rivincita sul potere esecutivo, e come una critica alle sue scelte politiche. In effetti, diversi ministri in carica risiedono nei Territori palestinesi occupati, e il massacro del 7 ottobre, con la conseguente guerra a Gaza, sono certamente legati alla politica di colonizzazione in Cisgiordania. Eppure, indicando che attualmente non vi sia una base legale per l’esenzione dal servizio militare degli ultra-ortodossi, la Corte ha solo fatto il suo lavoro. Ciò non toglie che la decisione sia certamente fastidiosa per Netanyahu. Come far votare una legge di esenzione senza urtare la maggioranza degli israeliani, che – anche se in misura minore dei palestinesi – soffrono per la guerra in corso? Come mantenere il sostegno della comunità ultra-ortodossa minando il suo fondamento del primato dello studio della Torah e della preghiera?
Staremo a vedere come Netanyahu cercherà di risolvere questo problema. Vorrei qui sottolineare come la decisione della Corte mette in evidenza la contradizione fondamentale insita nella costruzione di Israele. Vorrei difendere l’idea che il problema non sono gli ebrei ortodossi, ma il fatto che Israele cerchi di far convivere teocrazia e democrazia. Non è di certo una novità: già Marx aveva sottolineato che l’emancipazione politica non ha per obiettivo la soppressione delle religioni, ma di rimetterle al loro posto nella sfera privata. Il punto non è quindi di fare il tifo per gli ortodossi che – al di fuori di Israele – si dichiarano anti-sionisti, piuttosto che per gli ortodossi – in Israele – che spingono per la riconquista della Terra (loro) promessa. Diversi rabbini alla testa di comunità ortodosse israeliane hanno già fatto sapere che se non possono studiare e pregare in pace (!), allora se ne andranno altrove. In questo sono perfettamente coerenti. La difficoltà è di coloro che vogliono mantenere uno Stato aperto all’accoglienza di ogni ebreo nel mondo, senza chiarire completamente le condizioni di questa accoglienza.
Per risolvere la questione non basta richiedere che, come tutti, anche gli ortodossi servano nell’esercito per contribuire al buon funzionamento dello Stato. Non è una questione di uguaglianza (tanto più che stiamo parlando di un paese dove vigono numerose altre discriminazioni). Uno stato può benissimo funzionare senza che una larga fetta della sua popolazione vesta l’uniforme: in Svizzera per esempio sono poche le donne che decidono di farlo. E poi, che ideale di giustizia è quello che promuove l’uso della forza militare? Detto questo, gli ortodossi israeliani non sono proprio obiettori di coscienza: a lungo hanno beneficiato di condizioni particolari che li esentavano dalla scelta di servire nell’esercito. Si tratta quindi del patto sociale israeliano, è questo che sembra vacillare.
Gli equilibri sono cambiati. Dalla fondazione di Israele le comunità ultra-ortodosse sono cresciute e rappresentano un po’ meno del 15% della popolazione (ca. 1,3 milioni di persone). Così nel 1948, quando Israele contava poco più di un milione di abitanti, erano solo qualche centinaio gli ortodossi esentati dal servizio militare, mentre adesso sono circa 66000. Inoltre, in cambio del loro sostegno politico gli ultra-ortodossi beneficiano di diversi sussidi statali, che pesano sulle casse dello Stato. Questi vantaggi economici sono stati denunciati l’anno scorso in una lettera indirizzata al governo da più di cento economisti e accademici, che sottolineano come – secondo loro – a causa di considerazioni politiche a breve termine Israele si trasformerà in un “paese arretrato in cui una gran parte della popolazione non avrà le competenze di base per la vita nel Ventunesimo secolo”. Questa analisi è stata integrata da un cinquantenne ebreo israeliano di passaggio in Svizzera che mi ha recentemente confidato il suo progetto di emigrare proprio perché teme questa evoluzione più di quanto non tema le bombe palestinesi o di Hezbollah. Per lui gli ultra-ortodossi hanno ora la possibilità di vivere come fossero parassiti, ma a medio-lungo termine finiranno col distruggere il loro ospite. Di fatto, con circa sette figli a testa, la fecondità delle donne ultra-ortodosse è oltre il doppio di quella media del paese, che si situa intorno a tre, e si prevede che poco oltre il 2050 gli ultra-ortodossi rappresenteranno un terzo della popolazione.
Ortodosso è chi segue un’opinione (doxa) in maniera (cor)retta (orthos). A meno di esservi sottoposto, è difficile immaginare la disciplina che implica l’adesione a una serie lunghissima di prescrizioni religiose e sociali. Ne possiamo avere un’idea attraverso le rappresentazioni della vita monacale, e per quello che riguarda l’ortodossia ebraica, attraverso opere come l’autobiografia da cui è stata tratta la mini-serie televisiva Unorthodox. Questa è centrata sulla battaglia per l’emancipazione di una giovane donna cresciuta in una comunità di fede ultra-ortodossa chassidica new-yorkese, di cui fornisce una descrizione dall’interno. Rende palese le rinunce che i membri della comunità si impongono, ma dà anche una chiave di lettura di queste scelte. In occasione di una festa religiosa, la famiglia è riunita a tavola. L’anziano prende la parola e in maniera un po’ malinconica si chiede come mai Dio abbia permesso il massacro del Popolo eletto durante la Seconda guerra mondiale. Avanza l’ipotesi che forse è perché il Popolo non ha correttamente seguito la sua legge. Questo sembra giustificare lo sforzo di aderire ancora più rigorosamente ai suoi dettami.
Una manifestazione meno drammatica di questa problematica l’abbiamo avuta recentemente, su scala ridotta, a Davos. Un esercente fa sapere pubblicamente che non noleggia più slitte ai turisti ortodossi, perché questi non rispettano le regole elementari della convivenza. Alcuni denunciano un atto antisemita, altri cercano di evitare un problema di immagine per la destinazione turistica. Una task-force condotta da un ex-alto diplomatico svizzero, professore in risoluzione di conflitti all’ETH, produce un decalogo (!) di proposte che dovrebbero permettere di evitare tali problemi in futuro. L’arroganza percepita da una parte della popolazione di Davos non è dissimile dal sentimento che prova il cinquantenne israeliano di avere a che fare con degli approfittatori.
Ecco il dilemma. Come conciliare leggi che si trovano su piani diversi, la tradizione con l’attuale? La comunità tende a chiudersi su se stessa. Ma allora come può essere parte del mondo che la circonda? Lo stato tende a uniformizzare. Ma non perde allora una preziosa ricchezza e diversità? Uno stato di diritto che lasci il giusto spazio alle libertà private, tra le quali quella di culto dovrebbe riuscire a rispondere a questo tipo di domande. Molto dipende però dalla forma concreta di una tale organizzazione statale. Così per esempio la separazione tra stato e chiesa incarnata dalla laicità alla francese non è bastata a evitare la diffusione dell’islamismo radicale, continui rigurgiti di antisemitismo, e la crescita del populismo di destra nella vicina Repubblica. Sembra però chiaro che Israele dovrà necessariamente ripensare il suo fondamento, se vuole sopravvivere come democrazia rifugio per i molti ebrei che purtroppo subiscono ancora discriminazioni in diverse parti del mondo.
Nell’immagine: una scena dalla serie Netflix “Unorthodox”
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