Anche le campane di Davos sembrano suonare a morto
A che cosa serve ancora questa sorta di liturgia mondiale nelle Alpi svizzere dei più o meno grandi del mondo? Un interrogativo lecito, forse urgente, nei giorni del WEF
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A che cosa serve ancora questa sorta di liturgia mondiale nelle Alpi svizzere dei più o meno grandi del mondo? Un interrogativo lecito, forse urgente, nei giorni del WEF
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A che cosa serve ancora questa sorta di liturgia mondiale nelle Alpi svizzere dei più o meno grandi del mondo? Un interrogativo lecito, forse urgente, nei giorni del WEF
Qua e là ci si è chiesto (e si è letto): a che cosa serve ancora questa sorta di liturgia mondiale nelle Alpi svizzere dei più o meno grandi del mondo, governanti, dirigenti di multinazionali e di imprese, illustri universitari, giornalisti, con apparizioni varie di consiglieri federali tesi a mettere in conto questo o quell’incontro?
Forse, quest’anno più che mai, prima di curiosare su ciò che capita o si dice a Davos, bisognerebbe leggere il recente libro di uno sperimentato giornalista del quotidiano americano “The New York Times”, Peter Goodman, che da un quarto di secolo frequenta quel Forum economico mondiale. Un libro (“The Davos Man”, edito da Harper Collins, titolo significativo ma con sottotitolo altrettanto esplicito: “How the Billionaires devoured the World” o Come i miliardari hanno divorato, saccheggiato, il mondo) che è stato definito “potente e infocato”, “assassino”, “essenziale” “che sarà letto tra cento anni “as a warning”, come un avvertimento… avvertimento che a noi non sarà più utile). Imputa alla classe, così ben rappresentata a Davos e così ben descritta, tutti gli eccessi e le menzogne dei super-ricchi. Ma, soprattutto, dimostra come il loro impatto “nascosto”, “furtivo”, su quasi ogni aspetto della società l’abbia totalmente sconvolta: la ricchezza che non è scesa, come voleva il liberismo o la mondializzazione, verso il basso ma è andata sempre più verso l’alto; crescita senza fine delle disuguaglianze; aumento del nazionalismo antidemocratico ed anche militare come unico metodo di sicurezza e difesa; riduzione sistematica della possibilità di guadagnare un salario vivibile per accrescere i profitti di pochi; vulnerabilità di tutti i sistemi sanitari dimostrata da una pandemia; dilagante e arrogante ingiustizia fiscale… e persino diversa qualità della camicia “on your back”, sulla tua schiena.
Ciò che può risultare interessante ed anche emblematico è che leggendo l’agenda odierna (o le cosiddette “highlights”, del 24 maggio) del WEF, troviamo una sorta di eco di quel libro, quasi a rendersi conto che qualche problema esiste. Ad esempio: la vecchia globalizzazione “is over”, è superata; che cosa arriva ora? Si presenta invece una “global food crisis”, viene addirittura a mancare il cibo, diventa “red alert”, allarme rosso, per il nostro pianeta e il popolo la situazione climatica e, quindi, “need action and innovation now”, lo spasmodico ritornello sul da farsi e sulla miracolosa innovazione o, per darsi arie più pratiche, “come aiutare a creare un mondo without plastic waste”. Senza dimenticare l’astruso problema creatosi negli ultimi tempi con singolare humour gastronomico. “ Bitcoin pizza (sic) and a liqudity lounge”.
Siamo quindi sempre lì, con tre ormai inevitabili constatazioni su cui, forse, varrà la pena ritornare a bocce ferme:
1) un mondo che è alla deriva, che ha ormai tutta l’aria di essere “postneoliberale” o “postoneoliberista”, che sarà comunque certamente meno aperto, più frammentato ed anche molto più fragile;
2) una demondializzazione (deglobalizzazione) ormai in atto, solo acuita dalla crisi “geopolitica” ucraina; la globalizzazione che doveva essere la soluzione, la panacea di ogni male, diventa sempre più un problema. Tanto che ci si chiede: Davos, che fu il simbolo, il profeta e il vangelo della grande apertura del commercio mondiale (globalizzazione), diventerà ora (con il suo interrogativo “what next?”, che cosa dopo?, già scritto nella sua agenda) il luogo teorico del ripiegamento e del ritorno delle grandi passioni geopolitiche?
3) con l’assunto proposto dal “patron” Klaus Schwab all’incontro (“La storia ad una svolta: politiche pubbliche e strategie d’impresa”) Davos cercherà di inoltrarsi in un terreno forse inevitabile, ma sicuramente ostico e cioè… la sperimentazione della decrescita, passata da utopia a opzione che si impone? Sembrerebbe, visto che sul sito “Heidi.news” si scrive: “Il mondo cambia, l’urgenza è dovunque e l’idea che l’economia fiorente è il principale motore della pace e della felicità ha del piombo nelle ali”. Che non è solo quello dei fucili.
Anche se l’invito, ovviamente, è di continuare ad essere ottimisti, sembra che anche le campane di Davos suonino a morto per certi miti che ha sempre nutrito o per il “Davos-Man” che ha sempre vezzeggiato.
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