Attorno alla dottrina della «guerra giusta»
Spunti storici e valutazione morale in un contesto contemporaneo particolarmente ambivalente - Di Alberto Bondolfi
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Spunti storici e valutazione morale in un contesto contemporaneo particolarmente ambivalente - Di Alberto Bondolfi
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Spunti storici e valutazione morale in un contesto contemporaneo particolarmente ambivalente - Di Alberto Bondolfi
Ho accettato temerariamente di esprimermi su un tema oggi sovente evocato e talvolta frettolosamente attualizzato, nell’intento non tanto di risolvere tutti i nodi che si incontrano nell’approfondirlo, quanto solo di chiarificarne la portata normativa per gli individui e per le società in cui essi si trovano a vivere e operare1.
L’evocazione della «guerra giusta» è recentemente stata oggetto di particolare attenzione anche da parte di attori politici che hanno introdotto questa locuzione nei loro discorsi tesi a legittimare le misure belliche da loro decise in questi ultimi tempi. Non è mia intenzione analizzarle da un punto di vista filosofico morale e teologico morale, quanto piuttosto prendere lo spunto da tali evocazioni per verificare la tenuta normativa della dottrina messa in campo e al contempo chiedermi se il passaggio di molte intuizioni morali presenti nelle varie versioni della dottrina della «guerra giusta» nelle disposizioni del diritto internazionale contemporaneo sia da salutare come fenomeno moralmente positivo o meno.
La struttura di questo testo tiene conto di queste intenzioni iniziali. In una prima parte, ripresa in questo numero di «Dialoghi», esaminerò i principali cambiamenti paradigmatici che la dottrina della guerra giusta ha vissuto lungo i secoli della storia dell’Europa occidentale, mentre in un secondo momento analizzerò il passaggio di questa dottrina dall’alveo della filosofia e teologia morale a quello del diritto delle genti e internazionale, per concludere infine con un abbozzo di riflessione sulle potenzialità e sui limiti legati a tale passaggio disciplinare.
L’espressione «guerra giusta» è testimoniata già nella letteratura dell’antichità greca e romana, anche se in questi secoli non si possa affermare di essere in presenza di una vera e propria «dottrina»2. La storiografia più recente3 ha potuto analizzare le fonti greche e latine prescindendo da presupposti legati alle fasi più tardive dello sviluppo di questa dottrina e mettendo così in luce aspetti specifici della riflessione filosofica dell’antichità classica precristiana. Mi limiterò qui solo a schizzarne alcune caratteristiche, mettendo così in evidenza la grande distanza che ci separa dai contesti entro cui è venuta alla luce la prima riflessione morale e politica attorno al fenomeno della guerra nel mondo occidentale.
Negli scritti di Platone e di Aristotele che ci sono pervenuti si parla della guerra in due sensi diversi. Con il termine di stasis entrambi intendono i conflitti armati tra cittadini della medesima polis, mentre con polemos essi indicano quelli tra membri di città o comunità diverse. La distinzione comunque non sembra avere una portata esplicitamente normativa, anche se l’attenzione dei due pensatori classici è maggiormente dedicata alla guerra civile nella polis che ai conflitti tra diverse città-stato4. Nelle opere dedicate alle problematiche politiche, soprattutto nei Nomoi5, troviamo affermazioni in cui si lodano come necessarie le qualità militari dei cittadini e in cui si intravvede persino un’identificazione tra i cittadini e i soldati. La già citata distinzione tra conflitti di stasis o rispettivamente di polemos viene vista da Platone in un orizzonte specificamente greco. Gli abitanti della Grecia sono, secondo Platone, naturalmente connotati da legami di parentela e amicizia e quindi i loro conflitti devono poter essere gestiti con particolare armonia e moderazione, mentre i conflitti tra membri delle città greche e i barbaroi, cioè abitanti esterni alla Grecia, sono naturalmente molto più violenti e brutali.
Presso Aristotele troviamo un orientamento analogo a quello verificato presso Platone: critica della guerra civile e comprensione per quella verso i «barbari». Aristotele disapprova comunque con decisione l’attitudine «imperialista» di quelle città che, prese solo da brama di potere, combattono altre città per allargare la propria sfera di influenza. Sparta viene spesso evocata come esempio principe di una tale attitudine. Nonostante il carattere piuttosto descrittivo di vari passaggi aristotelici, bisogna ammettere che soprattutto nella sua Politica sono ravvisabili, almeno in maniera embrionale, alcuni elementi normativi nel giudizio morale posto sulla guerra. Tali elementi diventano visibili quando la tematica della guerra viene a intrecciarsi con quella della riduzione in schiavitù dei nemici, ridotti in questo stato post bellum. Aristotele giustifica tale misura punitiva, non in senso assoluto, ma quando tale pratica sia legittimata a seguito di un’operazione bellica a sua volta risalente a un’operazione di difesa della propria polis. Una schiavizzazione di nemici a seguito di un intervento puramente dispotico non trova giustificazione negli scritti del Nostro.
Queste considerazioni riscontrabili soprattutto nella Politica di Aristotele vengono qui evocate non tanto perché esse siano elementi di una vera e propria sistematizzazione teorica dell’accettabilità di principio di un’operazione bellica, quanto per il fatto che esse, riprese fuori dal loro contesto, dopo molti secoli e più precisamente all’inizio del tempo moderni, furono riprese da alcuni partecipanti alla disputa giuridico-teologica legata alla legittimazione della conquista dell’America da parte della corona spagnola6.
Un vero e proprio inizio di un discorso articolato e normativo sulla guerra e su una sua legittimazione morale e giuridica è ravvisabile nell’opera di Cicerone, testimoniata soprattutto nel suo De officiis7. Rispetto al contesto ellenico in cui operavano Platone e Aristotele, siamo qui in presenza del contesto culturale romano, connotato perlomeno da due nuovi fattori specifici: quello dato dall’influsso della filosofia stoica e quello di una presenza marcata della riflessione giuridica, tipica della cultura romana. Questi elementi di novità hanno facilitato lo sbocciare di una prima versione, ancora relativamente frammentaria, ma già minimamente sistematica e a carattere normativo, di quella dottrina qui presa in esame.
Gli elementi maggiormente rappresentativi e che saranno pure ripresi nel seguito della storia sono ravvisabili sia nella precisazione del concetto di giustizia sia nella sua applicazione al fenomeno bellico.
I. 34 «Vi sono poi certi doveri che bisogna osservare anche nei confronti di coloro che ci hanno offeso. C’è una misura anche nella vendetta e nel castigo; anzi, io non so se non basti che il provocatore si penta della sua offesa, perché egli non ricada mai più in simile colpa, e gli altri siano meno pronti all’offesa. Ma soprattutto nei rapporti fra Stato e Stato si debbono osservare le leggi di guerra. In verità, ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell’uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può avvalere della prima.
35. Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati»8.
La prosa di Cicerone si rapporta da una parte a regole giuridiche a suo tempo note perlomeno a tutta l’élite politica romana e dall’altra a una pretesa protezione degli dei qualora la dichiarazione di guerra fosse espressa secondo le regole del diritto cosiddetto feziale. Questo intreccio tra regole giuridiche e ritualizzazioni religiose della dichiarazione di guerra ha contribuito a una interpretazione relativamente severa delle regole stesse, anche se ci è difficile poter sapere oggi come fosse concretamente l’implementazione delle regole stesse in occasione di conflitti regionali tra romani e popoli vicini che manifestavano la loro opposizione all’espansionismo romano.
Se vogliamo lo sguardo allo sbocciare di ulteriori versioni di una dottrina della guerra giusta nei secoli che seguono l’epoca in cui si diffuse il pensiero ciceroniano nella cultura romana, siamo necessariamente confrontati con il pensiero cristiano e in particolare con la sua diffusione durante i primi tre secoli della nostra era. Si manifesta qui una rottura radicale e una ripresa del filone inaugurato dapprima da Platone e Aristotele e in seguito da Cicerone, ripresa avvenuta solo a partire da Agostino nel quarto secolo.
Chi si interessa alle attitudini che le prime generazioni cristiane hanno avuto nei confronti del fenomeno della guerra e della partecipazione di cristiani alle attività dell’esercito romano si trova confrontato con un nodo interpretativo presente nella storiografia patristica già fin dall’Ottocento. Si tratta infatti di dare una risposta storicamente documentata e al quesito teso a rispondere all’interrogativo riguardante l’assenza di una riflessione teologica su una «guerra giusta» durante i primi tre secoli dell’era cristiana, seguiti dall’apparire abbastanza improvviso della versione agostiniana della dottrina della guerra giusta, versione ispirata da una parte dal pensiero filosofico dell’antichità classica e da un richiamo diretto alle fonti bibliche9. Come spiegare dunque questa interruzione nello sviluppo omogeneo di un corpus dottrinale, dato e non concesso che si debba considerare come necessaria o perlomeno come evidente tale continuità in una visione armonica nella storia delle idee?
Per rispondere a tale interrogativo può essere utile evocare una tipologia delle attitudini assunte dalle prima generazioni cristiane nei confronti dell’esercizio della violenza bellica da parte dei credenti. Il noto storico del cristianesimo R.H. Bainton ha cercato di mettere un po’ di ordine in seno al dibattito sul cristianesimo dei primi secoli attorno a questa problematica, proponendo una classificazione delle posizioni etiche sostenute dalle comunità ecclesiali dei primi secoli e distinguendo tra «pacifismo, guerra giusta e guerra santa».
Non intendo, almeno in questa sede, discutere se la tipologia proposta da Bainton sia o meno adeguata a classificare al meglio la letteratura cristiana dei primi secoli, ma vorrei solo mettere in evidenza che, sempre a partire da questa tipologia, che questa letteratura (e quindi anche i testi neotestamentari) non conosce scritti che riprendono i primi abbozzi di una teoria della guerra giusta. In realtà il comandamento del «non uccidere» (sia nella formulazione di Es. 20, 13 che in quella deuteronomica in Deut 5, 17.) fu interpretato come valevole in maniera assoluta, senza alcuna eccezione. Questa interpretazione fu vista all’opera anche nel giudicare la partecipazione di cristiani alle attività dell’esercito romano o ad altre operazioni di polizia che prevedessero eventuali spargimenti di sangue10. Questo pacifismo di principio, vastamente documentato negli scritti cristiani dei primi tre secoli, non è motivato evidentemente solo da ragioni legate al comandamento del «non uccidere», ma trova connessioni strette con altri temi e conflitti normativi, come ad esempio la critica ad ogni forma di idolatria, elemento necessario nelle pratiche interne all’esercito romano. Si può dunque, a partire da queste sommarie indicazioni sui primi tre secoli di cristianesimo, sostenere di essere in presenza di un vero e proprio pacifismo protocristiano, sparito poi nei tempi successivi, per riapparire solo durante gli ultimi decenni che precedono la nostra contemporaneità? L’interrogativo, posto in termini così generali e generici, non può trovare una risposta univoca. Non si può a mio avviso parlare, per questi tre primi secoli di testimonianze scritte cristiane, di pacifismo nel senso contemporaneo del termine, poiché non siamo in presenza di un esercito di massa e obbligatorio per tutti i cittadini, come è il caso per molti stati contemporanei. Inoltre, l’esercizio delle armi poteva avere altri sensi di quelli oggi possibili in un esercito regolare. Una ripresa meccanica dei giudizi morali presenti negli scritti protocristiani per i nostri giorni provocherebbe perciò abbagliamenti ermeneutici abbastanza vistosi e distorti.
Lo scenario muta radicalmente al momento della cosiddetta svolta costantiniana, muta radicalmente l’atteggiamento morale nei confronti dell’impero in genere e verso le attività belliche dello stesso. Al punto che, ad esempio, il concilio di Arles prevede pene canoniche per coloro che intendono abbandonare, in tempo di pace, l’esercito romano. I cristiani diventano così indirettamente anche amministratori dell’impero e ciò spiega la necessità di formulare una dottrina organica sull’accettabilità della guerra. Sarà S. Agostino a formularla e proporla, in maniera non ancora completa, ma comunque già molto organica.
Il vescovo di Ippona non ci ha infatti lasciato un trattato sistematico sull’argomento, quanto piuttosto una serie di affermazioni sparse, che rispondono comunque a una visione abbastanza costante del fenomeno della guerra nelle sue valenze morali. L’interpretazione di questi testi riserva comunque notevoli difficoltà legate al carattere occasionale degli scritti stessi11. Agostino si esprime sul tema quasi sempre a partire o da contesti polemici o perché richiesto di un parere concreto per situazioni precise in cui si trovano alcuni suoi fedeli. La sua presa di distanza nei confronti di un generico pacifismo è dovuta soprattutto alla sua lotta contro il movimento manicheo, cui lui pure aveva in passato parzialmente aderito. Per quanto riguarda il contesto politico più largo entro cui lui si esprime, non bisogna dimenticare che egli scrive quasi sempre sotto l’influsso del rimprovero fatto ai cristiani di aver contribuito con le loro posizioni pacifiste alla rovina e decadenza dell’impero romano. Il vescovo di Ippona intende rispondere a simile rimprovero con un impeto apologetico e al contempo mettendo in luce il fatto che i cristiani sono ora disposti ad assumere piene responsabilità pubbliche e sociali, incluse quelle legate al mantenimento di un ordine pubblico.
Agostino distingue innanzitutto nelle sue varie prese di posizione tra guerre che possono risalire a una volontà espressa da Dio e quelle che invece non possono farvi riferimento. Questa percezione volontarista della legittimità di alcune guerre gli è facilitata da una lettura dei testi veterotestamentari in cui le affermazioni dei libri storici vengono interpretate abbastanza letteralmente, anche se esse prendono in Agostino talvolta un valore archetipico. La volontà di Dio si manifesta nell’autorità politica che agisce in maniera retta. Si inserisce qui il secondo elemento importante dell’etica della pace agostiniana. La rettitudine dell’autorità politica è legata a una visione della vita sociale percepita come ordo, in cui la pace è appunto il frutto dell’ordine: pax tranquillitas ordinis. La conseguenza normativa di tale visione consiste nel saper rispettare questo ordine a partire dalla funzione sociale che ogni individuo esercita nel convivere sociale. È il cosiddetto ordo serviendi, criterio di giudizio morale che guida le azioni dei singoli attori sociali: il principe, i soldati e i sudditi. Come egli afferma nel Contra Faustum «chiunque serva Dio sa che nulla di illecito gli può essere ordinato da parte sua»12.
Tutte queste considerazioni legittimano comunque solo parzialmente le guerre cui l’essere umano è confrontato. Sono lecite, infatti, solo quelle che sono intraprese in vista di una pace futura. Anche l’intenzione soggettiva deve corrispondere a tale funzione: «bellando pacificus». Per questo motivo, sempre secondo Agostino, non sono da considerare lecite le guerre preventive, ma solo quelle intraprese per riparare un torto o un’ingiustizia già commessi precedentemente. Esse devono inoltre essere intraprese solo da quelle istanze cui bellare fas est, cioè da quelle deputate a tale scopo e cioè dall’autorità riconosciuta pubblicamente. Essa può delegare questo compito ad altri, come appunto i soldati, ma rispettando sempre il cosiddetto ordo serviendi. Infatti, secondo il vescovo di Ippona, «turpis omnis pars universo suo non congruens»13.
Come si può ben vedere, gli elementi fondamentali della cosiddetta dottrina della guerra giusta sono presenti già in nuce nel pensiero agostiniano, anche se in forma non ancora sistematizzata e rigorosa. Un giudizio su queste posizioni deve saper distinguere tra l’opera stessa di Agostino e la sua ulteriore ricezione. Per quanto riguarda la prima bisogna notare, tra gli aspetti positivi, la radicazione dell’etica della pace in una visione globale del convivere sociale e una valorizzazione, anche se parziale, della funzione politica in quanto tale. Positivo è sicuramente anche il legame intrinseco che Agostino vede tra la giustizia e la pace.
Tra gli aspetti problematici va annoverata a mio avviso soprattutto la tendenza teologico-volontarista nell’interpretazione dei fatti storico e/o politici. Questa tendenza può portare a una teologizzazione troppo diretta di singoli episodi che si rivelano poi, a parte post, frutto della libido dominandi umana più che della Provvidenza divina. Fa qui capolino una pericolosa vicinanza tra la dottrina della guerra giusta e la dottrina della guerra santa, riscontrabile talvolta anche nell’opera agostiniana14.
Questa vicinanza si fa ancora maggiormente ambigua nella complessa opera di ricezione del suo pensiero e delle sue opere nella teologia medievale. Essa tende a staccare innanzitutto le singole affermazioni di Agostino dal loro contesto concreto entro cui erano state formulate e le fissa in una dottrina giuridico-canonica. Inoltre esse vengono quasi esclusivamente applicate al contesto particolare della guerra contro i vari movimenti ereticali del medioevo o nel quadro delle varie crociate contro il mondo musulmano nel vicino Oriente.
Ci si limiterà qui a esporre le linee maggiori della nostra dottrina, così come essa è stata formulata nella sintesi di Tommaso d’Aquino, senza soffermarci sul pensiero di altri pensatori dell’età di mezzo che pure hanno significativamente contribuito all’elaborazione dettagliata della dottrina che qui ci occupa15. Con la riflessione di Tommaso d’Aquino la dottrina riceve una forma altamente sistematizzata e viene inserita nella sintesi dell’etica teologica ritrovabile nella Summa theologiæ16. Il contesto teologico entro cui l’Aquinate propone la sua riflessione etica non gli fa rifuggire dal prestare un’attenzione intensa sia alla massa di materiali filosofici risultanti dalla sua costante frequentazione degli scritti a lui accessibili di Aristotele e di altri filosofi dell’antichità classica come pure alla fonti giuridiche mediate soprattutto dal Decretum Gratiani. Tommaso eticizza fortemente la prospettiva entro cui esamina i vari aspetti del fenomeno bellico sottoponendolo e concentrandolo attorno all’interrogativo che presiede a tutta la Quæstio 40 della Ia-Iiæ, tesa a sapere se ogni atto bellico contraddica necessariamente alle esigenze della virtù di carità. Così facendo il problema della guerra è per così dire tolto dal contesto in cui i canonisti del suo tempo lo avevano esaminato e cioè come la variante principale della lotta legittima della Chiesa all’eresia.
I criteri principali di una guerra giusta possono, sempre nell’opera dell’Angelico, essere così sintetizzati, riprendendo le parole chiave che evocano i principali criteri di giudizio:
Tutti questi elementi di giudizio su singoli aspetti presenti nei discorsi che intendono giustificare un intervento bellico ci mostrano come la loro sistematizzazione sia da una parte sicuramente spuria da quegli elementi medievali che davano adito sia a forme di prepotenza teocratica che alla legittimazione di ogni sopruso legato al sistema feudale, mentre dall’altra, attraverso l’estrema formalizzazione dei singoli criteri di giudizio sulla guerra, pecchi di grande astrattezza e inoperabilità.
Questa perfezione formale del suo approccio alla guerra ha comunque permesso una sua riedizione e riattualizzazione agli inizi dei tempi moderni, ad opera soprattutto della teologia spagnola della scuola di Salamanca (ne parleremo più tardi) e del giusnaturalismo filosofico-giuridico del XVII e XVIII secolo.
La Riforma ha costituito anche per l’ulteriore sviluppo del nostro topos dottrinale, cioè per la riflessione morale attorno alla guerra, una tappa particolarmente significativa. Le posizioni difese dai tre riformatori principali, Lutero, Zwingli e Calvino, sono state formulate a partire da situazioni personali alquanto diverse tra loro e cronologicamente contemporanee per i primi due, mentre Calvino è espressione di una situazione già più avanzata nel tempo. La storiografia recente ha messo in luce queste specificità e ha prodotto pure anche sintesi di grande respiro, che hanno contributo a fare maggiore chiarezza sul significato della Riforma anche in questo ambito specifico.
Lutero si muove qui, come per altri problemi concreti di etica politica, nello schema di pensiero legato al riferimento della vita di ogni cristiano a due istanze tra loro non completamente separate, ma da tenere comunque ben distinte: l’istanza del rapporto di ogni credente nei confronti di Dio e quella del cittadino di fronte a coloro che detengono la responsabilità e l’autorità nell’ambito della vita sociale e politica. Il Riformatore di Wittenberg non ha voluto proporre una sua versione specifica della dottrina della guerra giusta, ma, muovendosi all’interno del pensiero tardo medievale che aveva frequentato fin dagli studi nell’ordine degli agostiniani, ha cercato di difendere alcune posizioni che egli cercava di far derivare dalla sua visione del rapporto tra la legge e il Vangelo. Il fenomeno della guerra va inserito nel contesto della prima funzione che la legge (in questo caso egli intende parlare della legge emanata dall’autorità politica) esplica nei confronti di tutti i cittadini. Essa intende garantire la convivenza tranquilla tra tutti i componenti della società civile. In altre parole lo scopo della partecipazione di un cristiano a un’azione bellica può, sempre per Lutero, essere solo quello di impedire mali maggiori che si realizzerebbero nel caso di una sua non partecipazione sotto la direzione della legittima autorità.
Guerre offensive o anche solo preventive, non ricevono da Lutero alcuna legittimazione morale, anche se, nella foga della polemica anti-turca o antisemita, egli stesso non sarà sempre fedele ai propri principi e alle proprie convinzioni17.
I cristiani partecipano a operazioni belliche non in quanto cristiani, bensì in quanto cittadini aventi una propria funzione nel foro della vita politica, ad esempio come prìncipi o come soldati. Una guerra giusta può dunque avvenire solo come forma di punizione collettiva da parte di istanze superiori nei confronti di istanze inferiori e non viceversa. Essa deve inoltre limitarsi a rendere possibile di nuovo un minimo di iustitia civilis senza voler aggiungere alcun ulteriore risultato, fosse anche meritevole per la salvezza delle anime. Dunque neppure la salus ecclesiæ può legittimare una guerra. Come nel caso della condanna a morte di eretici, così nell’ambito di un’etica della guerra, Lutero si oppone fortemente e coerentemente ad ogni forma di «guerra santa» o di «guerra di religione». Nel saggio «Se le genti di guerra possano giungere alla beatitudine»18 il Nostro sintetizza con molta chiarezza il suo pensiero: «Senza dubbio i cristiani che combattono, non hanno sotto di sé autorità secolare: il loro è reggimento spirituale e, per quanto riguarda lo spirito, non sono soggetti se non a Cristo. Tuttavia col corpo e coi beni sono soggetti all’autorità secolare e tenuti a obbedirle. Ora, se dall’autorità secolare sono chiamati alla guerra, debbono e sono tenuti a combattere per obbedienza, non come cristiani, ma come membri e sudditi secondo il corpo e i beni temporali. Quindi, se combattono, non lo fanno per sé, né a favore di se stessi, ma per servire e obbedire all’autorità sotto la quale stanno».
Questo tipo di giudizio sulla guerra è evidentemente datato sia in prospettiva etico-normativa sia in quella di teoria politica. Nella misura in cui Lutero disapprova esplicitamente ogni forma di legittimazione teologica dell’intervento bellico, il suo giudizio mantiene comunque pertinenza e attualità, anche se il Riformatore di Wittenberg non ha intrapreso una rilettura sostanziale delle versioni medievali della cosiddetta «guerra giusta».
Uno sguardo sommario sui due altri Riformatori del sedicesimo secolo che hanno dato inizio all’ala riformata del protestantesimo, prendendo le distanze su alcuni aspetti del pensiero teologico luterano, mette in evidenza come il loro contributo alla storia della dottrina della «guerra giusta» sia intimamente legata alla loro biografia e alle loro esperienze politiche sul campo.
Zwingli, contemporaneo maggiormente di Lutero che di Calvino, morì prematuramente in battaglia nel 1531 a Kappel, vicino a Zurigo, ucciso dalle truppe cattoliche dei cantoni della Svizzera centrale. La guerra lo accompagnò dunque sia in vita che in morte: le prime esperienze le fece come cappellano delle truppe svizzere in Lombardia, sostenendo i soldati del papa e di varie regioni italiane contro l’armata della corona francese. Questa prima esperienza bellica lo convinse dell’intrinseca malizia dell’istituzione del mercenariato, fortemente diffusa nei territori svizzeri. L’argomento principale che egli diffuse nelle sue predicazioni nelle varie comunità in cui operò nella fase precedente la Riforma a Zurigo riguardava il fatto che il mercenariato portasse molto spesso all’uccisione reciproca di persone a servizio di eserciti diversi, ma provenienti dalle medesime comunità povere dei territori montani svizzeri. Questo argomento convinse solo in parte l’opinione pubblica elvetica, sia tra coloro che poi accettarono il progetto riformatore di Zwingli che tra coloro che vollero rimanere fedeli alla tradizione della cattolicità medievale. In ogni caso il movimento della Riforma protestante iniziato da Zwingli e appoggiato anche da altri teologi operanti a Basilea, Berna e in altre città svizzero tedesche ebbe come tema dominante non tanto un tema interno alla riflessione teologica, come nel caso di Lutero, bensì una sfida tipicamente etico-sociale. Durante gli anni del suo ministero a Zurigo, Zwingli simpatizzò soprattutto per le posizioni pacifiste di Erasmo, con cui intrattenne un rapporto di chiara stima e simpatia. La sua partecipazione alla guerra del Canton Zurigo contro quelli della Svizzera centrale non fu dettata primariamente da motivi dottrinali, quasi si trattasse di una «guerra santa», quanto piuttosto dalla convinzione che si dovesse preservare e mantenere l’esperienza riformatrice iniziata nella città di Zurigo. La prematura morte in battaglia impedì a Zwingli di proporre una riflessione etica sistematica sull’argomento della guerra. Chi cerca oggi di ricostruirne le linee essenziali, si limita a raccogliere le sue affermazioni sparse nelle varie opere pubblicate ancora in vita, mettendole in relazione con quelle del Riformatore di Wittenberg19.
Calvino non ebbe esperienze dirette legate alla guerra durante la sua vita e il suo operare, a Strasburgo dapprima e poi a Ginevra. Anche se la ricezione del suo pensiero etico e teologico fu fortemente controversa e i pregiudizi nei suoi confronti numerosi e costanti nel tempo, bisogna riconoscere di essere di fronte, anche per quanto riguarda il problema che qui ci occupa, a un teologo fortemente capace di pensiero sistematico e nel caso specifico anche particolarmente sensibile alla riflessione giuridica, che affonda le sue radici anche nella sua prima formazione.
Sia in alcuni suoi scritti di occasione, e ancora più nella sua opera più compiuta, la Institutio christinæ religionis20, è messa in evidenza la sua dipendenza dalla dottrina dei due regni che connota tutta l’etica politica di Lutero. Il cristiano deve lealtà ai magistrati anche se l’autorità di quest’ultimi è irrilevante in ordine alla salvezza. La loro competenza si limita alla gestione dell’ordine e della pace pubblica. Qualora le loro disposizioni dovessero contraddire alla legge di Dio, a tutti nota attraverso il decalogo e le altre esigenze morali della Scrittura, il cristiano dovrà rifiutare l’obbedienza ad esse. Non si tratta, almeno in Calvino, di un vero e proprio diritto di resistenza, bensì solo di un primato nei confronti dell’adesione alla volontà di Dio. Calvino conosce e riprende i criteri medievali della dottrina della guerra giusta, ma cerca di interpretarli in maniera alquanto stretta, affinché l’autorità non ricorra troppo facilmente alle armi per vendicare eventuali torti subiti alla comunità politica. Come si può vedere abbastanza chiaramente, nell’opera di Calvino si uniscono qui due diversi filoni dell’eredità teologica medievale: in primo luogo, è abbastanza evidente l’influsso dell’opera di Agostino nella sua percezione volontarista del fenomeno morale. Sono cioè legittime solo le guerre volute da Dio, come quelle testimoniate dai testi veterotestamentari, e che perlomeno corrispondono alla volontà di Dio e ai suoi comandamenti. In secondo luogo, i vari criteri di un intervento bellico qualificato come «giusto» sono quelli classici già formulati da Tommaso d’Aquino e che Calvino non modifica. I due elementi che connotano il suo pensiero non contribuiscono evidentemente a rendere la sua riflessione sulla guerra particolarmente originale, almeno da un punto di vista di una filosofia politica che guardi agli sviluppi interni alla dottrina classica della guerra giusta.
Ciò vale, a mio avviso, non solo per Calvino, bensì per tutti i Riformatori di prima generazione. A loro favore va comunque sottolineato il fatto che tutta la loro riflessione teologica in questo ambito si focalizza innanzitutto sui doveri che ogni cristiano deve adempiere nei confronti di chi detiene l’autorità politica e non cercare sotterfugi per potersene astenere. Questa attitudine del credente non deve soprattutto mescolare intenti legati alla propria salvezza di fronte a Dio con considerazioni attorno alla propria attitudine nei confronti del potere politico. Saranno le generazioni che seguiranno ad affrontare di petto i dibattiti sul diritto di resistenza ai sovrani e sulla legittimità dei conflitti armati per motivi confessionali. Un giudizio sul ruolo del protestantesimo nei confronti della tradizione della guerra giusta dovrà tenere in buon conto di questo décalage temporale nell’affrontare esplicitamente la problematica che stiamo trattando.
Note
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