Panama senz’acqua

Panama senz’acqua

È la stagione delle piogge ma non piove; nel Canale (dove scorre acqua dolce) si deve ridurre il passaggio dei cargo e il pescaggio massimo. L’ultima vittima del clima che cambia è il traffico merci mondiale


Gianni Beretta
Gianni Beretta
Panama senz’acqua

Le conseguenze del cambio climatico non risparmiano alcuna area del globo. Anche nel tropicale istmo centroamericano, dove nella norma si alternerebbero due stagioni (quella delle piogge da maggio a novembre e quella secca fra dicembre e aprile) ogni equilibrio sembra saltato. E aldilà dell’intensificazione dei fenomeni, con l’incremento di uragani specialmente sulla costa caraibica, la corrente de El Niño ha comportato una secca diminuzione delle precipitazioni, oltre che un’accentuata velocità di evaporazione delle acque. A tal punto che lo stesso Canale di Panama, che interessa fino al 4% del commercio marittimo mondiale (e il 40% di tutti i containers in circolazione degli Stati Uniti, maggior fruitore) ne sta soffrendo. A differenza infatti di altri attraversamenti come il Canale di Suez, retto da acque marine, quello panamense (lungo 81 km e percorribile mediamente in una decina di ore) è alimentato da acque piovane raccolte in invasi naturali in altura che finiscono nel sistema idraulico di chiuse di innalzamento (28 metri) e successivo abbassamento delle imbarcazioni che transitano sul lago Gatún e la via fluviale Culebra; per poi ogni volta perdersi nei due oceani nella misura di decine di milioni di litri.

Non è un caso che l’amministratore dell’Autorità del Canale, Ricaurte Vasquez, abbia lanciato l’allarme e disposto una riduzione del numero dei mercantili che lo possono attraversar giornalmente, oltre a limitare il loro pescaggio a un massimo di 13,41 metri. Risultato: code enormi (arrivate fino a 165 navi ferme in attesa) e perdite previste per il 2024 di almeno 200 milioni di dollari in pedaggi rispetto ai 4.900 milioni di entrate complessive stimate per quest’anno (maggior fonte di entrate per il paese). Anche i cargo più grandi sono costretti a ridurre la loro stazza trasferendo parte de containers su ferrovia nel porto di entrata di Balboa sul Pacifico, per recuperarli poi in quello di uscita di Colón sull’Atlantico (o viceversa). Ma ciò incrementa i costi di un terzo, oltre che raddoppiare inevitabilmente i tempi d’attesa agli ingressi (da 9 a 18 giorni).

Dallo scorso anno poi, per risparmiare acqua, il transito interoceanico era già stato ridotto a 32 navi giornaliere dalle 39 del 2022 (per un passaggio complessivo allora di 14.239). Il rischio di un venir meno dei fruitori si fa di conseguenza ancor più incombente visto che fra l’altro già da tempo si costruiscono navi cargo molto più grandi  (rispetto alle misure limite Panamax) rendendo più conveniente circumnavigare i due oceani doppiando lo stretto di Magellano.

Al prolungarsi delle siccità in un’area storicamente fra le più piovose al mondo, e viste le enormi spese di manutenzione, non è da escludere dunque che un giorno la via interoceanica possa addirittura chiudere. Il che conferma l’azzardo del recente raddoppio e ampliamento delle chiuse del Canale per il passaggio di imbarcazioni più capienti (Neopanamax) rivelatosi pressoché uno spreco. Dopo il referendum popolare di approvazione del 2006, i lavori di ampliamento (cui partecipò pure la italiana Impregilo) si sono infatti conclusi nel 2016 senza che paradossalmente la via d’acqua abbia mai potuto sfruttare al massimo la sua capacità, gettando al vento i 5 miliardi di dollari impiegati. Quando era già fin troppo chiaro a tutti da un pezzo il trend delle mutazioni climatiche

Il Canale di Panama fu inaugurato nel 1914, appena poco più di un secolo fa. Allo scopo gli Stati Uniti sottrassero di fatto alla Colombia il Darién (punto più stretto e invivibile dell’istmo) propiziando la nascita della Repubblica di Panama, cui impose di affittargli sine die la cosiddetta Zona del Canale. Ben presto vi si installò pure la sede del Comando Sud della U.S. Force, con relativa Escuela de las Americas. Da dove sono passati tutti, dicasi tutti, i dittatori militari che si sono alternati nei decenni del secolo scorso nei paesi latinoamericani: da Anastasio Somoza in Nicaragua ad Augusto Pinochet in Cile.

Fu solo nel 1977 che vennero sottoscritti i Trattati Torrijos-Carter, dal generale panamense anti gringo Omar Torrijos (capo della Guardia Nacional) che minacciò gli Usa con la famosa frase: “basta una scimmia per far saltare in aria il canale”. Nel 1984 fu così chiusa la fatidica scuola militare. Mentre successivamente il Comando Sud venne trasferito nella Carolina del Nord. Fino all’attribuzione definitiva del Canale alla sovranità panamense il 31 dicembre 1999. In un paese dove ancora oggi la moneta ufficiale è il balboa (dal conquistatore spagnolo che per primo attraversò l’istmo scoprendo un altro oceano) simbolicamente coniato ma dove da sempre circola solo il dollaro.

Con l’invasione dei marines del dicembre 1989 (che seguimmo da laggiù) durante la quale fu arrestato e deportato l’enigmatico successore di Torrijos, generale  Antonio Noriega, si temette che il presidente George Bush (padre) intendesse mettere in discussione quei trattati. In realtà già allora gli Usa compresero che, nonostante pure il successivo interessamento della Cina alla gestione dei porti d’ingresso, il Canale avrebbe perso gradualmente buona parte della sua valenza strategica. Anche se ancora non era così palese la sua fatale dipendenza dal clima.

Articolo scritto per il manifesto
Nell’immagine: la siccità nel lago artificiale Alajuela, riserva d’acqua per il canale di Panama

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