Quando si discute sull’aumento dei prezzi

Quando si discute sull’aumento dei prezzi

Da un’emissione televisiva spunti utili di riflessione sull’attuale congiuntura economica e sul fatto che anche con l’inflazione c’è sempre chi ci guadagna


Silvano Toppi
Silvano Toppi
Quando si discute sull’aumento dei prezzi

Si discute sull’aumento dei prezzi a “Patti chiari”, rubrica televisiva della RSI, di venerdì 2 febbraio. Sull’inflazione, quindi. Che è appunto l’aumento generalizzato dei prezzi.

Mister Prezzi dice, in sostanza, che lui, nonostante i mezzi legali e operativi limitati, nonostante il clima politico liberal-liberista ostacolante (questo non lo dice, ma lo si sa o lo si intuisce), ce la mette tutta e qualcosa riesce ad ottenere. Come, ad esempio, un freno all’aumento delle tariffe nei trasporti (qui si dovrebbe forse anche precisare che, trattandosi di “servizi pubblici”, comunali, cantonali, federali, è forse più facile). Aggiunge, non a torto, che ci sono scelte e decisioni politiche che comportano un aumento inevitabile dei prezzi. Come per la difesa della nostra agricoltura, soprattutto se implica privilegiare la nostra produzione, ponendo un freno all’importazione da paesi molto più avvantaggiati, naturalmente ed economicamente, in termini di costi di produzione e quindi di prezzi, rispetto a noi svizzeri. Quindi se accettiamo queste politiche e le loro conseguenze, dobbiamo anche accettarne i costi e, come consumatori, rispetto ad alcuni confronti con l’estero, accettare un maggior prezzo per molti prodotti agricoli-alimentari (si è così fatto un accenno significativo al prezzo della carne o a chi approfitta dei prezzi agricoli importati a minor costo per far la cresta maggiorando).

Il consumatore, quindi, paga sempre due volte: all’acquisto e quando versa le imposte. D’altronde, potremmo anche interrogarci (ma si dirà che è la solita demagogia antimilitarista): se accettiamo di spendere miliardi per una difesa militare che rimane “ipotetica” (ipotetica nel senso che possiamo anche lasciar arrugginire i carrarmati costati miliardi), perché non dovremmo spendere miliardi per una difesa concreta immediata, com’è quella della propria vitale alimentazione e di almeno una rassicurante autosufficienza alimentare? Difesa che, oltretutto, ha anche una forte implicazione nella protezione della natura, dell’ambiente. Quindi, se ci può essere un problema, è un problema di priorità nella spesa pubblica. Soprattutto quando capita, come si rileva ora, smarriti, che i problemi di bilancio sono altri, perché non si sa neppure con chiarezza contabile come si gestiscono i soldi da parte di quell’entità a sé stante che è l’esercito.

La rappresentante dell’Acsi (consumatori) rileva, giustamente, la complessità attuale del sistema economico ed anche politico. Il che significa, per dirla in termini semplici e pratici, che il consumatore finisce per essere intrappolato e posto nella condizione di non poter capire o scegliere e di dover subire. C’è un professore di finanze dell’Usi che sembra quasi farle eco. Per lui la complessità è… “la struttura che c’è in Svizzera” (che cosa vuol dire? La mancanza di concorrenza, il tenore di vita alto, la cattiva ripartizione dei redditi, la politica monetaria?). È a lui che si lascia chiudere con una nota positiva: vedrete, che andrà ancora tutto bene. Rimaniamo però con un interrogativo ovvio, di logica politica ed economica, grosso come un macigno, non posto, che ci lascia alla fame di prima: se è la struttura economica o politica la causa di tutto, che cosa va quindi subito cambiato o cosa dobbiamo esigere che cambi per poter essere ottimisti? Non lo si dice. Forse è politicamente eccessivo o pericoloso dirlo.

Per il rappresentante degli ambienti economici sembra infatti che non ci sia un gran che da cambiare, le imprese sono responsabili ed essendo sotto la pressione della concorrenza va quindi smitizzata anche l’idea, stramba, emersa chi sa come, che l’inflazione diventi l’occasione per aumentare i margini di profitto.

C’è invece un ampio e documentato studio-ricerca degli economisti della ECB o Banca centrale europea, presentato ai 26 governatori dei paesi membri della zona-euro, ripreso poco tempo fa dall’agenzia Reuter (vedi: ECB confronts a cold reality: companies are cashing in on inflation) che, risalendo alle cause dell’inflazione, ne scompone le possibili fonti: profitti, salari, tasse. Emerge, dall’analisi della realtà, che l’inflazione è *tirata” dalla volontà delle aziende di mantenere i loro profitti; il rialzo o il mantenimento dei prezzi sarebbe quindi giustificato dalla salvaguardia dei margini. È significativo rilevare come alla stessa conclusione, negli Stati Uniti, era giunta, poco prima, l’economista Isabelle Weber, dell’Università del Massachusetts, pure autrice di un analogo importante studio che ha suscitato grande clamore.

In altre parole: i margini di profitto di 106 grandi aziende del consumo esaminate nella zona euro sono aumentati più del 10 per cento tra un anno e l’altro con l’inflazione; oppure: l’aumento dei prezzi è stato utilizzato per mantenere o accrescere i margini delle imprese e, quella parte, è diventata la principale responsabile dell’inflazione. I consumatori e i lavoratori (che sono poi gli stessi) sono quindi serviti come variabile di aggiustamento. Si aggiunge una opportuna ma anche emblematica sfumatura o correzione: le aziende più piccole e più fragili hanno dovuto ridurre i margini sotto la pressione dei loro clienti più potenti (i quali, invece, hanno potuto aumentare i prezzi).

Sta di fatto che un responsabile della ECB (v. ECB: Monetary policy, speech by Fabio Panetta, member of the Executive Board of the ECB) sosteneva in seguito che “la dinamica robusta dei salari potrebbe aumentare lo spettro di una spirale prezzi-salari”. La colpa, insomma, finisce per ricadere su sindacati pretenziosi, che chiedono ora incessantemente adeguamenti salariali rispetto al… “carovita”. E si comprende allora come nelle inchieste tra le economie domestiche l’ottimismo risulta roba di là da venire, di professori ed economisti “mainstream”. Perché, se il problema è “strutturale “significherebbe, ad esempio: controlli dei prezzi articolati sull’indicizzazione dei salari, aumento delle tasse sui profitti, opportuna (anche per l’economia) ridistribuzione verso i salariati o il potere d’acquisto (e quello di vivere).

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