Di Carlo Bonini e Daniele Mastrogiacomo, La Repubblica
Brucia l’Amazzonia, brucia il Pantanal. Ardono il Brasile, la Bolivia, il Paraguay e il Perù. Sono a secco la Colombia, l’Ecuador e ancora più a Nord il Messico, assetati per l’acqua che non c’è più, riduce i fiumi a scheletri senza anima, la terra a una scorza dura come cemento, uccide le colture, stermina le mandrie. Quito e metà di Città del Messico sono al buio gran parte del giorno. Le centrali idroelettriche sono state spente, le falde acquifere ridotte a rivoli inquinati. Fuoco e acqua. La natura si ribella all’uomo e ai suoi veleni. Si difende con le armi che possiede. Scatena sui nemici due dei quattro elementi che ci consentono di sopravvivere. Di bere e riscaldarci.
Il fuoco ha divorato 18 milioni di ettari di verde tra l’Amazzonia del Nord Ovest e il Pantanal del centrosud. La prima, vero polmone del mondo; il secondo, serbatoio di umidità che garantisce l’equilibrio di entrambi. E’ andata in fumo una superficie grande come l’Irlanda. Alberi, piante, cespugli, fiori. E poi animali, specie rare, alcune ancora da scoprire e catalogare. Non hanno trovato scampo alle fiamme che spuntavano improvvise lungo i sentieri di terra, gli argini dei corsi d’acqua in secca, eruttavano dal suolo arido che rianimava antiche braci rimaste ad ardere in profondità. Il Brasile soffre la più lunga e devastante siccità degli ultimi 75 anni. A Brasilia, capitale politica creata dall’estro futurista di Lucio Costa e Oscar Niemeyer, non piove da 140 giorni. San Paolo, con i suoi 11,4 milioni di abitanti, si è trovata improvvisamente circondata da barriere di fiamme create da 180 roghi divampati quasi in simultanea. In soli 90 minuti la più importante e ricca metropoli del gigante sudamericano è stata avvolta da una fitta coltre di gas e polvere che impediva anche di respirare.
Una preoccupazione globale
“Siamo un paese vulnerabile”, ha concluso con aria grave il presidente Luiz Inácio Lula da Silva mentre sorvolava con l’elicottero il cuore della foresta pluviale. Osservava dall’alto i focolai che allungavano verso il cielo densi pennacchi neri. Tutti conoscono le cause di un disastro che è andato oltre le più pessimistiche previsioni. I diluvi che all’inizio di settembre hanno scaricato cascate di acqua in Giappone, Vietnam, Cambogia e ancora Thailandia fino al Myanmar, con devastazioni, allagamenti, case sciolte come argilla, mandrie affogate, colture sommerse dal fango e dai detriti, decine di morti trascinati dalle ondate dei fiumi, sono i segnali di un cambiamento che è concreto, non più ipotetico.
Il mese appena concluso ha toccato record storici per volume di pioggia e siccità estreme. Ha suscitato lo stupore di sempre, venato di ipocrisia, e l’ennesimo allarme che cade puntualmente nel vuoto. Il diluvio ha proseguito la sua corsa verso ovest tracimando i fiumi dell’Europa centrale. Polonia, Ungheria, Romania, Austria e infine l’Italia hanno pagato il loro prezzo con danni, vittime e devastazioni in un’atmosfera di rassegnata amarezza. Tutti sanno cosa sta accadendo, pochissimi sono disposti a invertire questa rotta distruttiva. Non esistono più le quattro stagioni. La natura le ha ridotte a due. Quella secca, con temperature torride e prolungate siccità; quella umida, carica di pioggia sferzata da venti che sono sempre più trombe d’aria, tornadi, uragani. Abbiamo superato il punto di non ritorno denunciato un anno fa da climatologi e meteorologi. Le foreste pluviali non sono più in grado di assorbire i veleni che emettiamo nell’atmosfera. Sono troppi e continui. Hanno riempito anche i serbatoi che le piante conservavano vuoti per sopperire al mancato ricambio d’ossigeno. Il meccanismo che garantisce la nostra sopravvivenza si è inceppato. Ora sono le stesse piante ad avvelenare l’aria sprigionando C02. Gli eventi naturali si manifestano con maggiore frequenza e intensità. La temperatura del globo si è alzata. Quella dei mari è più calda e per effetto dello scioglimento dei due Poli ha ridotto il suo indice di salinità. Ma questo rischia di influire sulle correnti degli oceani che creano le perturbazioni alternando in modo equilibrato il caldo al freddo.
“Terrorismo climatico”
Il presidente Lula lo chiama “terrorismo climatico”. Davanti ai 520 roghi che dal 23 agosto fino al 10 settembre mettevano a rischio l’intero Brasile ha mobilitato l’esercito. Quattromila soldati hanno lavorato giorno e notte. In una settimana sono riusciti a ridurli a 25. Ma c’erano altri 106 focolai in giro per il paese che ardevano in piena libertà. Domenica 15 gli incendi hanno raggiunto il Parco Nazionale di Brasilia,hanno minacciato i quartieri residenziali, hanno divorato 2.400 ettari dei 42 mila di questa riserva naturale. «Non eravamo preparati al 100 per cento», ha ammesso il leader della sinistra brasiliana nel Consiglio dei ministri convocato d’urgenza. “Abbiamo pochi uomini e pochi mezzi”, ha aggiunto. Poi, per attenuare le critiche si è auto-assolto: “Quasi nessuno Stato ha un servizio di protezione civile in grado di affrontare simili emergenze”. Dall’inizio dell’anno gi incendi hanno bruciato 6.718.025 ettari dell’Amazzonia brasiliana che, secondo i dati ufficiali, rappresenta l’1,6% del bioma. La causa sono i 63.189 focolai che si sono sviluppati tra gennaio e agosto: sono il doppio di quelli dello stesso periodo del 2023.
Il problema è proprio lì: non si tratta più di un’eccezione, è diventata la norma. Una realtà che si fatica ad accettare perché significa dirottare energie e risorse su un settore considerato non prioritario. Negare il cambiamento climatico ci condanna a rinviare scelte che sono impellenti.
Terreno di scontro politico
Lula è corso ai ripari e ha ottenuto anche risultati rilevanti. In diciotto mesi ha ridotto del 60 per cento il disboscamento. Ma le pressioni del Blocco rurale che gli garantisce una maggioranza al Congresso lo costringono a continue mediazioni. Si riproduce uno schema politico già visto nelle sue due precedenti esperienze di governo. Tornano le tensioni con la ministra dell’Ambiente Marina Silva. La quale per il momento evita di attizzare polemiche che finirebbero solo per indebolire l’esecutivo. Ma è chiara sulle cause di quanto sta accadendo tra Amazzonia e Pantanal. “Le alte temperature che persistono in gran parte del Brasile, i forti venti e la bassa umidità”, ha detto all’Afp nei giorni scorsi, «hanno creato uno scenario molto favorevole al divampare degli incendi. Ci sono nuove combustioni e nuove accensioni. Persino la savana del Cerrado sta prendendo fuoco». Il quadro è critico.
Lo sguardo di Lula e di Marina Silva è rivolto al Cop30 che nel 2025 si terrà a Belém, la città nel cuore dell’Amazzonia assurta a simbolo dell’emergenza climatica. L’obiettivo della conferenza organizzata dalle Nazioni Unite è porre fine alla deforestazione illegale nella regione entro il 2030. Anche se si raggiungeranno risultati ambiziosi l’incubo degli incendi proseguirà. Su questo la paladina a difesa dell’ambiente non ha dubbi. La «tempesta perfetta» creata dalla convergenza di alta temperatura, bassa umidità e forza dei venti non si placa con impegni e dichiarazioni solenni. «Il mondo deve fermare le emissioni di CO2», ha esortato. «Se non lo fa, la temperatura continuerà ad aumentare e le foreste saranno ancora divorate dal fuoco. Non solo in Brasile ma in tutto il globo».
Un anno difficile
Tra giugno e agosto scorsi, i roghi nella sola Amazzonia brasiliana hanno rilasciato nell’atmosfera circa 31,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica: una quantità equivalente alle emissioni annuali della Norvegia, avverte uno studio condotto sulla foresta pluviale dall’Istituto per la ricerca ambientale governativo (Ipam). La decomposizione della vegetazione bruciata emetterà, inoltre, gas serra «per molti anni», osserva il rapporto citato dalla rete Observatório do Clima. “È terrificante”, commenta Camila Silva ricercatrice dell’Ipam. “Le foreste, che dovrebbero catturare carbonio per i prossimi secoli finiranno per aggravare il riscaldamento globale”.
Il Brasile, secondo i dati del Servizio di Monitoraggio atmosferico Copernicus (Cams) ha registrato emissioni complessive superiori alla media. E questo è dovuto molto agli incendi che si sono sviluppati nell’Amazzonia sia brasiliana sia boliviana. In questi primi nove mesi del 2024 sono già state espulse nell’atmosfera 180 mega tonnellate di carbonio seguendo il record di emissioni del 2007. Nel solo mese di settembre sono state 60 mega tonnellate. Se si considera l’intero Sudamerica, gli incendi hanno avuto un impatto gravemente negativo sulla qualità dell’aria su territorio che si estende da Quito a Montevideo e Buenos Aires. Giugno è stato un mese deleterio per il Pantanal e le sue zone umide così essenziali per compensare lo squilibrio dell’Amazzonia. Le fiamme sono divampate principalmente nel Mato Grosso do Sul in Brasile ma si sono estese anche alle regioni vicine di Bolivia e Paraguay. Le emissioni di anidride carbonica sono state tre volte superiori al precedente record (2009) di maggio e giugno e si sono attestate a poco più di 3,5 mega tonnellate.
La mano dell’uomo
Ma ad appiccare il fuoco non è stata solo la natura. C’è sicuramente la mano dell’uomo. Per incuria, distrazione, volontà, chiara strategia dell’agrobusiness che punta a nuove terre per le sue mandrie o per le coltivazioni intensive. Lo denuncia convinto lo stesso Lula. Mentre la ministra Silva accennava alla tv di Stato la presenza di alcune persone che «stanno provocando incendi nella giungla”, il presidente è stato più diretto. Ha parlato dell’”opportunismo di alcuni settori politici», senza indicare quali. “Settori che puntano a creare confusione nel Paese. Per questo chiederemo indagini accurate per svolgere accertamenti e interrogatori. Perché”, ha aggiunto, “se ci sono persone che stanno commettendo questo tipo di delitti, la legge deve essere applicata con severità e fino in fondo”.
Ma poi, davanti alle insistenze dei giornalisti su chi fossero questi settori, Lula ha puntato il dito su «una persona molto importante» dell’opposizione, «che ha usato le seguenti parole: il Brasile sta per bruciare». Un avvertimento che aveva pronunciato giorni prima Silas Malafaia, l’influente pastore evangelico legato a Bolsonaro. Il presidente dell’Istituto statale per la Conservazione Chico Mendes, Muro Pires, non ha avuto dubbi durante la conferenza stampa tenuta per i roghi che assediavano San Paolo. «Quello che vediamo ha tutte le caratteristiche di un atto doloso criminale». Marina Silva ha fatto notare che gli incendi erano tutti scoppiati contemporaneamente e in un’ora e mezzo avevano circondato la capitale finanziaria del Brasile.
Che ci sia l’opera dell’uomo, anche involontaria, è convinto anche il Perù. Migliaia di ettari di giungla e di boschi sono andati in cenere dal 1 luglio. Ci sono stati anche 20 morti, quattro erano vigili del fuoco. Il resto contadini che, a parere degli esperti, bruciano i campi al momento del ricambio delle colture. Ma queste “usanze ancestrali” non bastano a spiegare i fuochi che da oltre due mesi continuano a punteggiare la selva amazzonica dal lato peruviano. “Siamo in un contesto di crisi climatica”, ribadisce Fernando Regal, attivista di Fcds, una ong impegnata sullo sviluppo sostenibile, “abbiamo una stagione delle piogge più breve e una stagione della siccità più lunga. Questo significa che il suolo, la vegetazione e l’aria sono più secchi e più caldi”.
I fiumi hanno ridotto il loro livello e l’Amazzonia, assetata, sta per raggiungere il suo minimo storico di risorse idriche. I contadini sicuramente bruciano i campi per le semine e per usare la cenere come fertilizzante. «Ma a fronte di queste pratiche tradizionali», osserva Renzo Piana direttore esecutivo dell’Istituto per il Bene Comune (IBC), “c’è il rischio molto alto che gli incendi sfuggano al controllo e che, con la vegetazione e un ambiente più arido e un elevato accumulo di materiale combustibile, questi siano più gravi”.
Leggi e normative
La politica e le sue scelte sono i principali indiziati. Spesso esitano a reagire e quando lo fanno varano leggi che incoraggiano il disboscamento. «In Perù», ricorda Piana, «ci sono stati cambiamenti nella normativa ambientale che in un certo senso stano favorendo l’apertura ai privati. Hanno reso molto flessibili i meccanismi di cui disponevano lo Stato e gli enti incaricati della gestione forestale». I cambiamenti sono «un incentivo perverso», sentenzia. Oggi è più facile convertire i terreni forestali in terreni agricoli e ottenere un titolo di proprietà. «Tutto questo», dice ancora Piana, «alimenta il traffico di terre».
Nessuno, tra gli scienziati, dubita che l’origine di questo volume di fuoco sia dovuto al persistere di temperature eccezionalmente calde in questo inizio di primavera australe. È noto che agosto e settembre sono i mesi più letali per le foreste aggredite da autocombustioni e roghi dolosi. Ma ha fatto impressione quando perfino il brasiliano Carlos Norbe, uno dei climatologi più rispettati, noto per la sua competenza e la sua prudenza, ha ammesso in un’intervista a O Estado de S. Paulo: «Sono terrorizzato». Ha ricordato che nessun scienziato al mondo aveva previsto ciò a cui stiamo assistendo sul nostro pianeta. La temperatura media è già quasi 1,5 gradi Celsius superiore a quella preindustriale. Nei peggiori scenari si valutava che questo poteva accadere solo nel 2028.
Eliane Brum, la nota giornalista e scrittrice brasiliana, strenua ambientalista e fustigatrice dei disastri provocati da Jair Bolsonaro, lo ricordava giorni fa. Davanti a questo scenario si chiedeva in modo retorico che fine avesse fatto Lula. Lei stessa rispondeva elencando la serie di iniziative che il presidente aveva adottato. «Dall’apertura di un nuovo fronte di sfruttamento petrolifero in Amazzonia», scriveva su El País, «alla difesa di una ferrovia chiamata Ferrogrão per trasportare semi di soia e altre materie prime raccolte dalla giungla». Ma ricordava anche il progetto forse più ambizioso del leader della sinistra brasiliana: il completamento della BR-319, una vecchia autostrada che attraversa l’Amazzonia.
L’autostrada della discordia
Iniziata dalla dittatura militare questa ferita nel cuore della foresta pluviale si estende per 900 km. Collega Manaus, la capitale dello Stato di Amazonas, a Porto Velho in quello di Rondônia. Il tratto principale di 400 chilometri è stato abbandonato ed è impraticabile dagli Anni 80 del secolo scorso. Lula ha annunciato lavori di pavimentazione su altri 52 km. Si è impegnato a riattivare le opere di ristrutturazione del troncone centrale. Lo scopo, secondo il presidente, è rompere l’isolamento delle popolazioni locali. Da mesi, con il fiume Madeira in secco, non hanno altra via di trasporto e comunicazione. Raggiungere quelle zone è vitale per garantire almeno gli approvvigionamenti. La decisione ha subito sollevato preoccupazioni tra ecologisti e scienziati ambientali. “La foresta amazzonica ha una protezione passiva: non offre molti accessi per entrare”, rileva Britaldo Soares-Filho, ricercatore dell’università del Minas Gerais. “La creazione di nuove strade è come aprire una vena nella foresta per chi cerca terra. Il fronte più dinamico della deforestazione è proprio la regione meridionale dello stato di Amazonas. Gran parte del territorio che circonda la BR-319 è pubblico ma non ancora designato come area protetta o foresta nazionale.È un boccone ghiotto per i grileiros”, aggiunge. Si riferisce ai trafficanti di terra che falsificano i titoli fondiari mettendo i documenti in una scatola piena di grilli che li consumano rendendoli più vecchi.
Già nel 2020, l’allora presidente Jair Bolsonaro aveva tentato di riavviare i lavori in questa autostrada controversa. L’anno scorso il collettivo ambientalista Climate Observatory aveva denunciato il progetto di pavimentazione e ne aveva ottenuto la sospensione temporanea. La giustizia aveva riconosciuto che la nuova fettuccia di asfalto violava i diritti degli indigeni. Chi si oppone al progetto ricorda che tra il 1988 e il 2020 sono stati deforestati 89.328 ettari di verde all’interno della fascia di 40 km e 300.116 se si estende ai 150.
Ma Lula considera quel tratto di strada della BR-319 una “necessità” per Manaus e Porto Velho. “Non possiamo abbandonare quelle popolazioni all’isolamento”, dice. Ferrante è convinto che dietro il progetto esistono altre motivazioni legate agli idrocarburi. “L’apertura del tratto centrale va di pari passo con l’espansione petrolifera”, sostiene chi è critico sull’opera. “L’anno scorso il governo ha aperto 9 blocchi di esplorazione di greggio nella zona dell’autostrada”.
Attraversare l’Amazzonia con l’asfalto significa anche unire le due sponde dell’America meridionale. Sul lato del Pacifico, la Cosco cinese, tra le più grandi industrie del trasporto marittimo, ha quasi ultimato i lavori per la costruzione di un porto che sarà in grado di ospitare i mega cargo di 100 metri. A Chancay, 90 chilometri a Nord di Lima, sorgerà il nuovo hub di tutto il commercio via mare dell’intera Sudamerica. Pechino si è ricavata un tratto di terreno che ha comprato dal governo peruviano. Da qui i bestioni del mare seguiranno una rotta che li porterà direttamente a Shangay, in soli 15 giorni. Una settimana in meno dell’attuale percorso che obbliga le navi porta container a risalire fino a Los Angeles e da lì piegare verso la Cina. Il porto sarà inaugurato ai primi di novembre alla presenza del presidente Xi Jinping.
Il fronte dei Brics
“Il sud globale” rappresentato dai Brics, di cui il Brasile rappresenta la prima lettera dell’acronimo, sta costruendo la sua rete di scambi che presto metterà in crisi il dominio del nord del globo guidato dagli Usa e dall’Europa. Nel suo “Olocausti” appena uscito da Feltrinelli, Gilles Kepel tratteggia bene i fili che reggono il nuovo assetto geopolitico del mondo. Parte dal pogrom del 7 ottobre in Israele e la spaventosa carneficina a Gaza per arrivare a disegnare la linea che oppone ormai i fronti meridionali e settentrionali del globo. Non più Est contro Ovest ma Sud contro Nord. Le diramazioni arrivano fino all’America Latina con interessi e alleanze legati a una precisa strategia. Il presidente Lula, capofila del blocco che comprende anche Cina, Russia, India, Sudafrica e adesso accoglie l’adesione dell’Arabia Saudita e degli Emirati, segue il disegno con rinnovato protagonismo.
Vara un decreto straordinario per un credito di 94 milioni di dollari a favore delle misure contro gli incendi. Ma rimbrotta anche l’Europa chiedendo ai 27 di sospendere l’entrata un vigore delle norme contro la deforestazione che dovrebbero scattare il 30 dicembre introducendo il divieto di importare prodotti legati alla distruzione delle foreste nel mondo. Punta all’autostrada dell’Amazzonia per soccorrere i suoi abitanti. Ma poi rinvia la definizione dei confini delle terre da assegnare alle oltre 200 tribù indigene tradendo le promesse fatte prima e dopo essere stato eletto anche grazie ai loro voti.
Sullo sfondo di queste contraddizioni che toccano non solo Lula, restano le ombre dei 196 attivisti ambientali e difensori della terra assassinati nel biennio 2023-2024. Una vera strage. Secondo la Global Witness, la ong britannica che ogni anno stende questa classifica mortale, l’85 per cento degli omicidi è avvenuto proprio qui, in America Latina. La Colombia è in testa con 79 casi, seguita dal Brasile (25), Messico e Honduras (18).