Kamala Harris: la grande sorpresa di una campagna elettorale che sembrava destinata a proporre divisioni, litigi, storture inaudite. La sua entrata in scena è culminata ieri notte a Chicago in un trionfo tanto inatteso quanto riuscito. Fra gli applausi e l’entusiasmo dei delegati presenti, Kamala Harris ha accettato la nomination quale candidata democratica alla Casa Bianca in una atmosfera di entusiasmo e approvazione impensabili anche poche settimane fa. Ha promesso di essere la presidente di tutti gli americani, porre fine a sterili polemiche e risolvere i problemi che affliggono il paese. Questo con una gestione, sono parole sue, nell’interesse di tutto il paese e di tutti gli americani.
«Rispetterò il primato della legge, ci saranno elezioni libere e una nuova amministrazione in grado di governare con fermezza e dignità. Non stringerò la mano a dittatori come il nordcoreano Kim Jong-un. Gli autocrati non mi piacciono» ha detto, e al contempo ha difeso con fermezza l’importanza della Nato.
Al delicato capitolo Medio Oriente, Kamala Harris ha confermato il diritto di Israele di difendersi, ma al contempo chiesto alle parti in causa di giungere a un cessate al fuoco, alla liberazione degli ostaggi e, molto importante, di non ostacolare il sogno dei palestinesi di avere una propria patria, nella quale vivere in pace e serenità.
Al rivale Donald Trump non ha dato scampo. Lo ha definito un uomo pericoloso, senza una vera strategia di governo e alcun rispetto per le regole del gioco della democrazia americana e impegnato solo in una battaglia di divisioni, faziosità e cinismo. «Trump», ha affermato, «non è un uomo serio».
Diversi commentatori americani tra i più ascoltati hanno lodato il discorso e le promesse di Kamala Harris, al punto da dire che con lei si apre un nuovo grande capitolo della storia americana. Il suo discorso e la sua visione degli Stati Uniti fanno ben sperare nel futuro di una America alla quale eravamo abituati, nonostante i passi falsi della politica estera degli ultimi anni: guerre in Iraq, Afghanistan, Libia.
Una America come riferimento per molti paesi e custode di valori irrinunciabili per tutte le democrazie, tale il messaggio di Kamala Harris. Ha dedicato una parte del discorso alla sua infanzia: figlia di immigrati e in particolare la madre indiana che l’ha educata sin da piccola a non arrendersi mai, a battersi per un futuro migliore per tutti. Diceva «Kamala, non basta lamentarsi per le ingiustizie. Bisogna fare qualcosa e risolverle.»
L’entusiasmo palpabile ieri notte a Chicago non può non riproporre la domanda: come si è quindi potuti giungere al Trumpismo ? È tutto cominciato con la creazione, 15 anni fa, del Tea Party (non tè come bevanda, bensì «Taxed Enough Already» (già abbastanza tassati) e il grande malcontento causato dallo scandalo nazionale della bolla immobiliare (subprime), con milioni di persone che persero la loro casa. Un movimento libertario facilmente riconoscibile nel trumpismo: ridurre il governo federale, la spesa pubblica, abbassare il debito pubblico e mettere fine agli aumenti delle tasse. Membri importanti del movimento sono Sarah Palin, Marco Rubio, Ted Cruz.
Questa campagna elettorale è stata, come tutte le altre, un misto di maratona e kermesse. Per la RTSI ne ho seguite 4 : Reagan, Clinton, i due Bush padre e figlio. Il copione, sempre lo stesso : giornate di 22 ore, impegni a non finire, obbligatori, perché computer e telefonino non erano ancora disponibili.
Anche il protocollo era molto severo: la mia squadra venne arrestata perché si era avvicinata troppo al Presidente Reagan durante una sua apparizione in pubblico. Dovetti naturalmente scusarmi e gli agenti della sicurezza accettarono la mia spiegazione. Protocollo anche nell’abbigliamento: la stampa americana in camicia bianca e cravatta nonostante il freddo glaciale (20 gradi sotto zero) per le primarie dell’Iowa in gennaio, o i 39 gradi della convention democratica di Dallas, Texas, in estate.
Missione compiuta ieri notte per Kamala Harris. Ora però arriva la fase cruciale: come convincere gli indecisi? Secondo gli osservatori più qualificati il discorso intriso di contenuti chiari, seppur generici, avrà un ruolo importante nelle scelta degli elettori il prossimo 5 novembre, così come le prossime 10 settimane di intensa campagna, particolarmente negli “swing states”, ossia gli stati chiave e indecisi, nei quali nessun partito ha garantito in partenza un sostegno storico tale da assicurare i voti dello stato stesso nel collegio elettorale.
Nell’immagine: la piccola e la grande Kamala