Cari Marx e compagni, le cose non stanno così. Firmato: la Storia
Scavando alle radici della questione ucraina si incontrano anche i pensatori del movimento socialista, che non hanno contribuito a fare chiarezza
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Scavando alle radici della questione ucraina si incontrano anche i pensatori del movimento socialista, che non hanno contribuito a fare chiarezza
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Scavando alle radici della questione ucraina si incontrano anche i pensatori del movimento socialista, che non hanno contribuito a fare chiarezza
Questa tesi è stata sostenuta non solo tra i “Grandi Russi” ma anche da pensatori del movimento socialista come Rosa Luxemburg. Secondo la rivoluzionaria polacca non solo lo sviluppo capitalistico aveva reso superata la questione dell’“autodeterminazione delle nazioni” in generale, che finiva per rimandare sine die l’evoluzione della lotta tra le classi, ma l’aveva resa del tutto inutile per quanto riguardava l’Ucraina. Gli ultimi 150 anni di storia si sono incaricati di dare una durissima replica alle tesi della Luxemburg, e la questione nazionale si è proposta e riproposta costantemente, persino in Europa Occidentale.
Già nel Secondo Dopoguerra il più importante marxista ucraino, Roman Rosdolsky si era incaricato di dimostrare come concezioni come quelle di Rosa Luxemburg ma anche, come vedremo, di Marx ed Engels, fossero basate su un pregiudizio e una visione statica dei processi sociali in Europa Orientale. Rosdolsky, nato a L’viv nel 1898, militò in un primo momento nel partito comunista ucraino ma poi ne fu espulso per avere simpatizzato con Trockij. Divenne celebre per il suo monumentale lavoro filologico sui Grundrisse di Marx (“Genesi e struttura del “Capitale di Marx”) ma lavorò molto anche sulla questione nazionale ucraina scrivendo il seminale “Friedrich Engels e la questione dei popoli senza storia” che definisce i termini della questione.
Nel 1848, a differenza che in Francia e in Germania, in Ucraina l’esplosione della rivoluzione in Europa non assunse le dimensioni di rivolta generalizzata ma consolidò i sentimenti anti-zaristi e democratici che covavano nei settori più avanzati della società. Tutto ciò non fu colto né da Friedrich Engels né dalla “Neue Rheinische Zeitung” di cui era caporedattore. In quel periodo il sodale di Marx scrisse articoli di fuoco contro la pretesa dei cosiddetti “popoli senza storia” (cechi, slovacchi, sloveni, ucraini, ecc.) di poter giungere alla liberazione nazionale usando toni forti. “Se si eccettuano i polacchi, i russi e tutt’al più gli slavi di Turchia, nessun popolo slavo ha un futuro” sostenne Engels.
A distanza di quasi 200 anni la storia è stata impietosa nei confronti delle previsioni del comunista tedesco ma soprattutto ha condannato la logica secondo la quale lo sviluppo delle forze produttive e le loro ricadute territoriali si impongono “inevitabilmente” nei processi storici. Sotto questo profilo la storia si è incaricata di mettere un epitaffio sulla tesi secondo la quale la questione nazionale sarebbe stata superata dalla dinamica stessa dello sviluppo capitalistico.
Ettore Cinnella, nel suo libro su Marx, ha sottolineato acutamente che “non era solo la passione nazionalistica e l’ignoranza della storia slava a ispirare le analisi errate e le fallaci previsioni dell’articolo Il panslavismo democratico firmato da Engels ma condiviso anche da Marx. Nella rigida gerarchia tra nazioni dominanti e popoli ai margini della civiltà, alla quale Engels si appellava a sostegno delle proprie argomentazioni, era facile ravvisare una visione trionfalistica del processo storico”.
Roman Rosdolsky, nel libro citato, scritto appena dopo la Seconda Guerra Mondiale ricostruì in modo certosino tutta la querelle.
Engels nei suoi articoli dell’epoca voleva prendere di mira con spietatezza e sarcasmo la posizione del “panslavismo democratico” di Michail Bakunin, partendo da una posizione preconcetta nei confronti di buona parte dei popoli dell’Europa centro-orientale. Secondo Engels gli appelli morali del futuro capo anarchico alla libertà, al diritto, alla giustizia non erano altro che “bazzecole” che si scontravano con le ben più forti leggi della politica e della storia, ovvero – per usare il linguaggio del materialismo – puro idealismo.
Nel suo “Appello agli slavi” infatti Bakunin aveva implorato l’unità rivoluzionaria di tutti gli slavi con toni quasi mistici: “Certo, lo slavo non soffrirà, ma vincerà. Certo che vivrà! E noi vivremo. Finché la più piccola particella dei nostri diritti ci verrà contestata, finché anche un solo membro del nostro corpo comune verrà separato o strappato, lotteremo non per la vita ma per la morte, fino all’ultima goccia di sangue, finché alla fine lo slavismo sarà in mezzo al mondo grande e completamente libero e indipendente. Ma è per questo che dobbiamo guardare al di sopra del piccolo al più grande, al di sopra dell’individuo al tutto, e dirigere tutta la forza della nostra resistenza all’ostinato nemico dell’unione, e se una qualsiasi nazione, anche se una parte di essa un tempo faceva parte del nostro nemico, riconoscerà finalmente il nostro diritto e sarà disposta a combattere per uno con noi contro il grande nemico comune, dovremmo darle volentieri la nostra mano”.
Rosdolsky colse però come “dietro l’allucinazione bakuniniana” vi fosse qualcosa di poderoso, qualcosa di più reale: si trattava di una visione, di un presentimento geniale di quel processo storico che alla fine avrebbe portato i popoli slavi a una nuova vita, a un’esistenza autonoma” (segnaliamo che Rosdolsky scriveva quando ancora si era ancora ben al di là della ridefinizione dei confini dell’Europa orientale, e la caduta del muro di Berlino non era ancora prevedibile).
Rosdolsky da marxista eterodosso non temeva il paradosso: “Per strano che sembri, in questa grande questione controversa il politico romantico Bakunin ottenne la vittoria sul politico realista Engels non grazie ma a dispetto del proprio falso punto di vista… Engels gettò il bambino con l’acqua sporca. Per rifiutare la “teoria morale” che deduceva il principio dell’autodeterminazione dei popoli dai “diritti umani eterni” egli negò questo principio in quanto tale, negò la necessità di tracciare frontiere che corrispondessero alla “volontà dei popoli stessi” e ritenne necessario addirittura giustificare le annessioni nel caso in cui si verificassero “nell’interesse della civiltà”.
Si trattata di un aspetto che venne colto, nello stesso periodo (siamo nel 1952), anche da Franco Venturi nel suo monumentale Il populismo russo. Lo studioso torinese, nel notare la rozzezza dell’attacco di Engels a Bakunin, segnava come il futuro libertario fosse “il primo russo che, dopo i decabristi, tentasse di legarsi politicamente al movimento nazionale polacco”. Sebbene come si vedrà nella sua Confessione anche l’approccio “panslavista democratico” non fosse esente da limiti, la politica di Bakunin “consisterà in un generoso tentativo di navigare contro controcorrente, in un tentativo di condurre i movimenti nazionali degli slavi verso obbiettivi che non solo contraddicessero, ma appoggiassero le rivoluzioni democratiche in Francia, Germania, in Austria, in Ungheria e in Italia, e li strappassero dall’influenza dei centri conservatori, che si servivano di queste giovani forze politiche, giocando sulle loro rivalità nazionali”.
La posizione di Engels era talmente fragile che anche il principale storico bolscevico della Prima Internazionale, Iurij Steklov, fu costretto a riconoscere la correttezza della posizione dell’anarchico russo.
Nella sua monumentale biografia di Bakunin scrisse che: “È più che evidente che in questa disputa [sul diritto all’autoderminazione dei popoli senza storia, ndr] è piuttosto Bakunin a essere nel giusto […]. Il punto di vista di Bakunin, nonostante tutte le sue deficienze, è il più vicino alla nostra comprensione attuale del problema che non la posizione presa all’epoca da Marx ed Engels”.
Allora la questione dell’autodeterminazione ucraina era ormai stata assunta ma non si poneva ancora apertamente in chiave indipendentistica: sarà l’ascesa dello stalinismo e poi il crollo dell’URSS a dare urgenza a questa prospettiva.
Nell’immagine: le statue di Marx e Engels a Berlino
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