Caro Repole, sbagli: la nostra Salvezza non si trova solo in Gesù Cristo
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Caro Repole, sbagli: la nostra Salvezza non si trova solo in Gesù Cristo
Una frase dell’arcivescovo di Torino Roberto Repole (in un articolo per l’ultimo numero della rivista Vita e pensiero pubblicato in parte ieri da La Stampa in Cronaca di Torino) ha destato in me dapprima curiosità e poi preoccupazione. Ecco le sue parole conclusive: «Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo. Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano». In sé nulla di nuovo, solo la ripetizione dell’annuncio cristiano come prosegue da duemila anni.
Ma perché allora quello strano inciso «chiedo perdono»? A chi? E di che cosa? In realtà, dietro la ripetizione della prospettiva tradizionale c’è la consapevolezza di un problema diventato rovente ai nostri giorni e che si può esprimere così: davvero non esiste altro nome se non quello di Gesù per la salvezza degli esseri umani? Davvero si salvano (qualunque cosa voglia dire “salvarsi”) solo i cristiani? Davvero tutti coloro che non si appellano al nome di Gesù, e che sono la maggioranza dell’umanità nel passato nel presente e nel futuro, sono esclusi dalla salvezza? Davvero Dio rifiuta di salvare chi lo prega rivolgendosi a lui nel nome di altri? O chi non lo prega ma pratica la vita spirituale, come per esempio i buddhisti e i jainisti? O addirittura chi lo nega ma serve il bene con un’irreprensibile condotta morale lottando contro le ingiustizie e le disuguaglianze?
L’articolo di Repole è intitolato Riflessioni sulla Chiesa del futuro e prende spunto dalla situazione molto preoccupante del cristianesimo odierno. A questo riguardo l’arcivescovo scrive: «La Chiesa di oggi non è solo minoritaria ma in forte invecchiamento»; ancora: «La scarsa adesione dei giovani all’esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più percepita come risorsa spirituale»; infine: «Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità».
È innegabile, è la situazione sotto gli occhi di tutti; per lo meno, di tutti coloro che vogliono onestamente guardare. Ma c’è un’affermazione di Repole ancora più incisiva che merita di essere particolarmente sottolineata: «Sappiamo di trovarci a un guado, in un passaggio: ciò che abbiamo ereditato, il modo di essere Chiesa dei secoli passati, non esiste più. Si tratta di passare a un altro modo, che però non abbiamo ancora in mente e soprattutto non abbiamo nella carne». Sì, il punto è questo: la tradizione cristiana non esiste più e si tratta di attraversare il guado. Essa resiste nei libri e nelle formule dogmatiche, ma non esiste più nei cuori degli esseri umani, e non solo giovani. Per questo i responsabili ecclesiastici propongono le formule tradizionali ma la loro proposta «non è più percepita come risorsa spirituale».
Vede bene l’arcivescovo. Il quale giunge poi a proporre i dati di un sondaggio effettuato in Gran Bretagna secondo cui «meno del 50% delle persone si dichiara cristiano, però sta emergendo una forte ricerca di spiritualità». Meno cristianesimo, più spiritualità. Questo che vale per la Gran Bretagna vale per tutto l’Occidente: la separazione tra religione cristiana e spiritualità è la novità davvero clamorosa. Il che per la Chiesa è semplicemente sconvolgente, perché significa che essa non sa più intercettare il motivo principale che spinge da sempre gli esseri umani a credere in Dio e ad avere una religione.
Oggi in Occidente sono sempre meno coloro che, volendo seriamente coltivare nella propria esistenza la dimensione spirituale, si rivolgono alla Chiesa cattolica, e in genere alle Chiese cristiane. Questa frattura tra proposta religiosa cristiana e ricerca spirituale contemporanea è il dato, il punto, direi il sigillo, che contrassegna la situazione inedita di questi giorni, tanto difficili quanto irrequieti e sorprendenti. C’è una crescente domanda di senso e di spiritualità, ma l’offerta cristiana in Occidente (non così in altre parti del mondo) è sempre più irrilevante e sempre meno capace di parlare all’inquietudine dei cuori.
Ora occorre però tornare alla frase di Repole da cui sono partito, perché ciò che ai miei occhi risulta molto problematico è che, dopo la lucidità dell’analisi, la terapia suggerita consiste sempre ancora nella solita impostazione del cristianesimo tradizionale (che è la vera ragione della crisi cristiana): l’idea cioè che «in nessun altro c’è salvezza». A un mondo che cerca unità, dialogo, pluralismo, viene di nuovo offerto quell’esclusivismo teologico che lungo i secoli ha prodotto divisioni, persecuzioni, e non di rado violenze e guerre di religione. In nessun altro c’è salvezza? Davvero? Quindi Gandhi, Martin Buber, il Dalai Lama sono esclusi dalla salvezza? Sant’Agostino e i concili ecumenici pensavano così, ma la coscienza sente che si tratta di un’ingiustizia, peraltro già avvertita da Origene nel III secolo e da molti altri mistici e teologi dopo di lui. Finora gli uomini di Chiesa hanno sempre scelto il dogma e non la coscienza, e la situazione a cui la loro scelta ha condotto è quella descritta da Repole. Vogliono continuare così? Facciano: il problema, sia chiaro, non è del mondo, che va per la sua strada, ma del cristianesimo, le cui chiese rimangono vuote.
La frase del libro degli Atti degli apostoli che Repole riprende è pronunciata dall’apostolo Pietro rivolto alle autorità ebraiche, alle quali egli dice di parlare «nel nome di Gesù Cristo il Nazareno che voi avete crocifisso». Queste parole rappresentano un palese falso storico, perché è noto che non furono le autorità ebraiche a crocifiggere Gesù ma i romani, come dimostra anzitutto la stessa croce che era il loro patibolo più infame. Al falso storico si aggiunge il falso teologico sull’esclusività della salvezza, la quale sarebbe riservata solo a coloro che si rivolgono a Dio nel nome di Gesù. Si tratta di un falso «teologico» perché tale versetto del Nuovo Testamento è in aperto contrasto con il pensiero di Gesù, il quale legò sempre la salvezza alla pratica del bene e della giustizia, non a riti o a invocazioni particolari. Tra i molti passi evangelici riprendo la celebre scena del giudizio universale: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25, 34-35). Qui la partecipazione alla salvezza non è per coloro che si sono appellati al nome di Gesù, ma per coloro che hanno praticato il bene: essa cioè discende dall’etica, non dalla religione, ed è quindi universale.
Vi sono parole analoghe in un libro dell’antico Egitto scritto mille e cinquecento anni prima di Gesù, parole che l’anima pronuncia prima di essere pesata sulla bilancia di Osiride per passare alla vita eterna o al nulla definitivo: «Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (Libro dei morti, capitolo 125). Si potrebbero citare testi greci, romani, hindu, buddhisti, musulmani, taoisti e di altre religioni ancora, così come testi filosofici e letterari della ricerca spirituale laica, indirizzata alla coltivazione del bene e della giustizia per il solo amore del bene e della giustizia, il quale non è altro che un modo diverso di onorare quell’emozione ineffabile che talora gli esseri umani provano di fronte al mistero della vita e dei suoi grandi valori.
È questa la spiritualità nuova e al contempo antichissima, archetipale e primitiva, universale e in quanto tale unitaria, che sta emergendo nel mondo, rispetto a cui il cristianesimo, come tutte le altre religioni, si dovrebbe porre umilmente al servizio abbandonando ogni pretesa di primato e di esclusività. Credo che l’arcivescovo di Torino tutto questo lo avverta bene dentro di sé. E forse era proprio questo il motivo per cui, chiudendo il suo articolo con la riproposta del tradizionale esclusivismo cristiano, ha sentito il bisogno di dire: «chiedo perdono».
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