Clima: i villaggi delle Alpi hanno il tempo contato
Le Monde: in Ticino interi pezzi di montagna sono crollati a causa del cambiamento climatico
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Le Monde: in Ticino interi pezzi di montagna sono crollati a causa del cambiamento climatico
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Le Monde: in Ticino interi pezzi di montagna sono crollati a causa del cambiamento climatico
Le montagne da queste parti sono sempre crollate, come sembrano ricordarci i monoliti di gneiss antidiluviano che ingombrano il letto del fiume, da tempo coperti dalla vegetazione. Ma raramente una montagna è crollata come nella notte tra il 29 e il 30 giugno, come testimonia l’enorme massa di roccia che ha inghiottito metà del villaggio di Fontana, all’imbocco della Val Bavona, in Svizzera. Siamo a una trentina di chilometri a nord di Locarno (Canton Ticino), la città del famoso festival del cinema sulle rive del Lago Maggiore. La frana per un solo metro non spazzato via il rustico di Fabian Balli, impegnato a sgomberare ciò che resta del suo terrazzo.
È uno sforzo inutile: davanti a noi c’è solo una desolazione minerale. Fino a poche settimane prima c’erano le case dei suoi vicini e i pascoli delle capre. “Pioveva da ore, una pioggia incredibile e terribile. Sapevamo che poteva portare grandi disgrazie, perché la montagna era instabile da mesi, per le continue piogge”, dice l’uomo sudato, con la pala in mano. “Erano le 23.30. Stavo dormendo al piano di sopra quando fui svegliato di soprassalto da un boato indescrivibile, puro terrore. Sono sceso, ho aperto la porta e nella penombra ho intuito che tutto il paesaggio circostante era scomparso”. Fabian Balli indica la casa sovrastante – in quel momento non occupata – che è stata polverizzata dall’impatto della frana.
Nella mano destra, sullo schermo del suo smartphone, le immagini del vivace villaggio prima che fosse annientato dalle forze della geologia. La lava torrenziale, che è precipitata da un’altitudine di 2.500 metri, ha interrotto in più punti l’unica strada della Val Bavona. Più di un mese dopo la distruzione il genio dell’esercito sta ancora lavorando duramente per posare una pista sopra le macerie. Il nuovo percorso passa 30 metri sopra il vecchio, sepolto sotto la massa rocciosa. In fondo alla valle, la frazione di San Carlo, che conta una ventina di abitanti, è ancora servita solo dall’elicottero. “Non ricostruiremo. Con una distruzione di queste dimensioni la questione non si pone più”, dice Fabian Balli. “Ma siamo stati fortunati: più in basso c’erano ancora persone nelle case distrutte”. Otto sono morte nel disastro e una risulta ancora dispersa: un bilancio insolitamente alto per questo tipo di eventi nelle Alpi svizzere. Il Paese è ricco e monitora ovunque i movimenti delle montagne con sensori ultra-sofisticati, per prepararsi a qualsiasi evento imprevisto. Ora tutto sta accelerando. Lo scioglimento del permafrost negli altipiani sta liberando masse considerate stabili fino a poco tempo fa e nei principali cantoni alpini della Svizzera (Vallese, Grigioni e Ticino), che hanno le valli più lunghe, più alte e più profonde, gli incidenti sono in aumento. Negli ultimi mesi strade sono state interrotte, gallerie interrate e linee ferroviarie ad alta quota minacciate. Il cemento glaciale naturale che teneva insieme le catene montuose sta cedendo sotto i colpi del riscaldamento globale.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Come spesso accade in Svizzera, la domanda viene dall’esterno. In questo caso da un altro Paese alpino, l’Austria, che è solo leggermente meno minacciato, poiché l’altezza delle vette è inferiore. Secondo Reinhard Steurer, professore di politica climatica presso l’Università delle risorse naturali di Vienna, “l’aspetto più preoccupante della crisi climatica è la perdita di habitat. Non solo nelle zone costiere, a causa dell’innalzamento del livello del mare, o nelle pianure con l’aumento delle inondazioni, ma anche nelle regioni alpine esposte, in particolare nelle Alpi occidentali, che sono le più alte. Quante volte si possono ricostruire le infrastrutture distrutte? Ne vale la pena, dopo la decima lava torrenziale?” L’esperto prevede che le valli più colpite dovranno essere abbandonate entro la fine del secolo, perché le infrastrutture saranno distrutte più spesso di quanto possano essere ricostruite.
In Svizzera questa osservazione radicale fa riaffiorare brutti ricordi: nel 2005, in un rapporto dell’Ufficio federale dello sviluppo territoriale, quattro architetti e un geografo hanno esposto la loro visione del futuro sviluppo urbano del Paese e hanno proposto di trasformare valli strutturalmente deboli in lande alpine, suscitando un diluvio di critiche. Il dibattito ha toccato l’identità della Svizzera e le sue origini di nazione di montanari costruita intorno all’idea di un rifugio roccioso inespugnabile. Le recenti frane hanno riportato questo argomento tabù sotto i riflettori. “Probabilmente non riusciremo a evitare l’abbandono di alcune aree”, afferma Lukas Rühli, responsabile della ricerca sul buon governo presso il think-tank liberale Avenir Suisse [vedi anche Il paesaggio alpino? “Un lusso che non possiamo più permetterci”]. “È brutale per le persone colpite, ma non si rende loro giustizia se si tiene nascosto l’argomento”. La Confederazione e i Cantoni investono molto nelle regioni strutturalmente deboli delle Alpi, spiega Rühli: “Tuttavia se mantenere in vita questi luoghi diventerà più costoso, a causa della minaccia di danni causati dai cambiamenti climatici, non sarà più giustificabile dal punto di vista economico”.
Wanda Dadò, da qualche mese sindaco del villaggio di Cevio, dove la Valle Bavona e la vicina Valle Lavizzara (anch’essa gravemente danneggiata) si fondono per diventare la Valle Maggia, rifiuta categoricamente questo argomento. Nelle ultime settimane ha dovuto occuparsi delle riparazioni d’emergenza e dell’approvvigionamento di acqua potabile della valle, poiché la presa della sorgente era stata bloccata dai ghiaioni. Ha anche dovuto aspettare che l’esercito installasse un ponte temporaneo, in modo che la valle non fosse più tagliata in due. Le considerazioni politiche sul futuro delle valli alpine per lei sono sconvolgenti.
“Abbandonare le nostre valli? È un’idea di accademici e ingegneri, basata solo su calcoli economici e sulla rinuncia all’identità”, ribatte. “Ma prendiamoli in parola e parliamo di economia. In cima alle nostre valli ci sono le dighe che forniscono al Paese energia verde e priva di carbonio. Negli anni ’60, quando sono state costruite, abbiamo prestato la nostra terra per il bene comune, quindi troverei elegante se ci venisse restituita la stessa disponibilità adesso ne abbiamo tanto bisogno”. I danni in Val Bavona sono stimati in diverse decine di milioni di franchi svizzeri.
La società idroelettrica pubblica della Valle Maggia (Ofima) pagherà il 60% del conto; ha comunque bisogno di una strada per raggiungere i suoi impianti. Il Cantone pagherà il 20% e il Comune di Cevio, di cui fa parte la valle colpita, il restante 10%, una somma che comunque nelle sue casse non c’è. Per questo motivo a luglio Wanda Dadò ha lanciato un appello alla solidarietà nazionale su tutti i canali televisivi svizzeri.
A 800 metri dal suo ufficio, in un elegante edificio di granito, le scavatrici meccaniche stanno lavorando sotto il ponte provvisorio: in una grande nuvola di polvere minerale, come se la montagna fosse stata modellata dalla furia degli elementi, stanno allargando il corso del fiume Maggia per facilitare il drenaggio in caso di una prossima alluvione. Nel caldo dell’estate, grandi cumulonembi si librano sulle creste. Nella regione nessuno li guarderà più allo stesso modo.
Nell’immagine: una delle fotografie che illustrano l’articolo di Le Monde
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