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Silvano Toppi
Silvano Toppi
Cuba, la domanda che manca e...
• 30 Luglio 2021 – Silvano Toppi
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Non sono mai stato corrispondente dagli Stati Uniti, non sono mai stato a Cuba, non ne sono innamorato perché non l’ho mai conosciuta fisicamente (forse solo storicamente), non ho mai avuto parenti vittime di dittature. Insomma, quando si parla o si discute di Cuba o dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba o di ciò che si prova sotto una dittatura, sono il malcapitato, mi  manca (di fronte ad altri interventi apparsi su questo sito) tutto quanto fa  un competente. Tuttavia, come cittadino del mondo che ne segue le vicende, con il vizio di giornalista e l’interesse di economista, forse mi è permesso constatare che quando si parla di Cuba e Stati Uniti o semplicemente di Cuba, manca sempre la famosa seconda domanda del giornalista e non si accenna mai all’imperante ipocrisia politico-economica che sovrasta tutto.

La seconda domanda è questa: quali sono le vere intenzioni degli Stati Uniti, in combutta continua con Cuba, che è sulla porta di casa, da oltre mezzo secolo? Forse si presuppone: liberarla, portarvi la libertà e la democrazia (come infatti hanno via via preteso in Cile, Iraq, Yemen, Siria, Afghanistan, Libia, Palestina, Venezuela, Colombia). Evitare insomma regimi ostici, corrotti o ideologicamente opposti, risistemare le cose nel sistema (capitalista) che non può aver alternative, far fiorire le proprie idee e costumi, i propri interessi economici, assumersi la responsabilità universale di tutori e difensori dei diritti dell’uomo. E’ vero, dare una risposta univoca e onesta non è facile. E’ però possibile una constatazione: in un modo o nell’altro, hanno fallito dovunque siano intervenuti. Forse la libertà dev’essere un’altra cosa. Siamo vivendo, dopo l’Irakq, l’ultima triste rappresentazione in Afghanistan, dopo anni e miliardi di dollari, persino con l’aiuto di altri paesi occidentali. Tornano i Talebani, trionfanti. A noi hanno sempre lasciato un gravoso compito, in ogni occasione: curarci di dare la libertà ai rifugiati che hanno creato (ora stanno arrivando quelli afgani).

Si deve però almeno ammettere che il caso di Cuba  interroga maggiormente, dà un altro piglio alla seconda domanda mancante: se in sessant’anni (calcolando dalla Baia dei Porci, 1961) non si è riusciti a smuovere Cuba, relativamente piccola isola sulla porta di casa, dalla “dittatura feroce” (comunista, tipo quella albanese?), qualcosa ciurla nel manico del preteso democratico salvatore. O non è ritenuto credibile o è addirittura temibile nelle sue vere intenzioni o interessi dagli stessi cubani (quelli che abitano a Cuba, non quelli scappati in Florida o altrove). O i cubani, tutto sommato, sono degli inetti o preferiscono essere quel che sono o i metodi e le pressioni adottate per farli cambiare  hanno generato effetti opposti (non ci sono mai state dittature con repressioni, imprigionamenti, martirii- come si imputa a quella castrista- che siano vissute così a lungo: come mai?). Ci vuole l’economia bloccata che incontra il detonatore di una pandemia per provocare (forse) la deflagrazione si attende da mezzo secolo. Si sa da tempo che prendere per fame, peste adjuvante, è sempre stato il miglior mezzo per far capitolare il nemico, sin dagli assedi ai castelli.

L’imperante ipocrisia politico-economica dominante emerge dalla denuncia fatta in questi giorni da due organizzazioni della società civile (Bank Track e Justice for Myanmar) che hanno la credibilità che non si meritano gli Stati Uniti (e forse neppure la Svizzera). L’ipocrisia sta nel ritenere che ci sono dittature “rispettabili” se entrano nei tuoi schemi mentali, nel tuo sistema economico, nei tuoi interessi o giochi geostrategici.  Sappiamo, per decreto americano imposto a tutti, anche alla Svizzera, che Cuba non  vi  rientra perché non vi si assoggetta. Giuste e benvenute sono quindi ritenute le proteste e dimostrazioni ora in atto in quell’isola, in nome della libertà, e condannabili le repressioni che hanno già causato un morto, sinora accertato, e imprigionamenti vari, perché possono mutare le cose.

Mi  si dirà che Cuba, sulla porta di casa, non è Myanmar (ex-Birmania, Asia sudorientale), anche se quattro volte più popoloso dell’isola caraibica e paese più strategico  nel “gioco del mondo” caro agli Stati Uniti (confina con India e Cina). Paese comunque retto da tempo da una feroce dittatura militare (stando a dati usciti dall’Onu, dal febbraio scorso sarebbero stati uccisi 930 oppositori e se ne ritengono imprigionati quasi 7 mila). Ciò che qui conta però rilevare è che le due organizzazioni internazionali  sono riuscite a compilare una lista, da nessuno smentita, con 19 banche che investono ciascuna oltre un miliardo di dollari in società che lavorano con la giunta militare. Tra queste banche primeggiano le americane Bank of America, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Wells Fargo, ma anche le svizzere UBS e Credit Suisse. Un rapporto dell’Onu indicava lo scorso anno come questi finanziamenti esteri finiscono in due conglomerati finanziari che controllano tutta l’economia del paese, con la conclusione ch’essi garantiscono le risorse necessarie a sostenere le attività dei militari, accusati di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Ricordiamo che le due banche svizzere, pena gravi sanzioni americane, com’è già capitato alcune volte, non possono aprire conti o praticare versamenti su Cuba, neppure per beneficienza o per ricerca medica, neppure per i cittadini con doppia cittadinanza (svizzera e cubana).






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Silvano Toppi
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