Dal massacro di Gaza all’assedio della Cisgiordania: il fronte unico della guerra di Israele in Palestina
L’estrema destra al governo non trova più una opposizione di sostanza e di valori alle idee razziste del sionismo messianico
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L’estrema destra al governo non trova più una opposizione di sostanza e di valori alle idee razziste del sionismo messianico
• – Redazione
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• – Redazione
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• – Redazione
L’estrema destra al governo non trova più una opposizione di sostanza e di valori alle idee razziste del sionismo messianico
È un unico fronte di guerra. È un solo unico fronte di guerra che, però, non comprende solo Gaza, la parte (enorme, incommensurabile) per il tutto. È l’intera Palestina il fronte unico di guerra su cui si concentra, con modalità diverse, la strategia del governo di Israele. L’escalation attorno ai bordi, ai confini verso il Libano e la Siria – e poi oltre – è semmai il frutto altrettanto malato di questa unica guerra interna: l’allargamento a una guerra regionale è una diversione da parte di Benjamin Netanyahu e del suo governo per distrarre dall’obiettivo che negli ultimi mesi si è consolidato.
Lo scopo è persino più chiaro di quanto lo fosse già nell’autunno inoltrato, con l’ingresso delle truppe israeliane all’interno di Gaza: diminuire il “peso” dei palestinesi nel Territorio occupato utilizzando strumenti combinati e continuando – in versione aggiornata – la nakba iniziata nel 1948. Si utilizzano le distruzioni immani (a Gaza), il tentativo di nuova pulizia etnica attraverso i tragici carotaggi in corso contro i piccoli paesi (in Cisgiordania), l’annessione della stessa Cisgiordania attraverso atti formali da parte delle autorità israeliane preposte, e la definitiva chiusura di Gerusalemme ai palestinesi della West Bank con il consolidamento del controllo, in particolare sulla Città Vecchia. Tutto si tiene, insomma. Il massacro quotidiano dei palestinesi a Gaza da parte delle forze armate israeliane, lo stillicidio dei raid dei coloni e dell’esercito di Tel Aviv contro villaggi, città e campi profughi in Cisgiordania, e infine a Gerusalemme la rottura ormai conclamata dello status quo sulla Spianata delle Moschee.
È una strategia che a Gaza si esprime in tutta la sua terribile potenza, con la perdurante, capillare, costante pratica di bombardamenti su aree residenziali e zone definite sicure dalle stesse forze armate israeliane, con un solo obiettivo visibile e conclamato: i civili palestinesi, costretti con un ritmo sempre più serrato a muoversi da un luogo all’altro dell’area centrale e meridionale della Striscia, senza sapere più dove andare, se non dirigersi ora verso le spiagge del sud. Il massacro dei civili palestinesi va di pari passo con la distruzione sistematica (per dirla meglio, sistemica) dell’intera infrastruttura che teneva in piedi la vita a Gaza: strade, sistemi di approvvigionamento idrico ed elettrico, case, ospedali, scuole, scuole divenute rifugio, panifici, negozi, magazzini delle Nazioni Unite, l’intero sistema universitario ora distrutto. E i luoghi di culto, le oltre 600 moschee bombardate, compresa la più antica, la Grande Moschea di Khan Younis, della cui distruzione circolano video oramai virali su tutti i social. I soldati israeliani hanno bruciato anche le copie del Corano che servivano per i fedeli nella moschea di Bani Saleh, nel nord di Gaza, e hanno filmato il gesto sacrilego.
È una lista lunghissima, quella delle violazioni su Gaza dei diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita per finire con il diritto a rimanere sulla terra di cui sono parte da millenni. La spinta a costringere centinaia di migliaia di palestinesi in una zona sempre più piccola di territorio è, in alternativa, una spinta all’espulsione o a rimanere in condizioni impossibili in una ‘riserva indiana’.
La strategia israeliana in opera in Cisgiordania si compone di almeno due elementi. Il primo è l’attacco ai campi profughi per renderli invivibili e, dunque, tentare di chiuderli disperdendo la massa dei rifugiati che lì vivono dai tempi della nakba. Il secondo è la pressione sui piccoli villaggi a nord e a sud della Cisgiordania per costringere la popolazione ad abbandonare le case. A corollario, c’è la dissoluzione de facto del potere amministrativo e politico rappresentato dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, mantiene evidente un solo potere, di cui gli israeliani non possono ancora fare a meno: l’esercizio della forza da parte dei corpi di sicurezza dell’ANP, rivolti in particolare verso i nuovi gruppi armati che si sono formati nel corso degli anni più recenti nel nord della Cisgiordania.
Sono in particolare i raid quotidiani dell’esercito israeliano nei campi profughi che puntellano la Palestina a far comprendere che l’obiettivo è, anche in questo caso, demolire la “questione palestinese”, di cui i rifugiati incarnano il diritto al ritorno a casa, nelle case che ora, nella Palestina storica divenuta dal 1948 Israele, non esistono (quasi) più. La presenza di palestinesi che, in quanto rifugiati nella forma e nella sostanza, incarnano un diritto individuale e collettivo è divenuta ormai “la questione” per quella parte della politica e della società israeliane rappresentate dai due ministri del sionismo messianico, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Il fatto che ricoprano ruoli estremamente importanti della struttura di governo fa comprendere quanto i loro obiettivi siano centrali per Netanyahu (che ha un bisogno imprescindibile del loro sostegno) e per lo stesso esecutivo. Smotrich è colui che, per entrare nello specifico, sta agendo per l’annessione della West Bank, come ministro delle Finanze e governatore de facto della Cisgiordania per il suo ruolo nel ministero della difesa.
I campi profughi sono, dunque, un obiettivo ben preciso. I raid dell’esercito, le uccisioni quotidiane di palestinesi (il totale è ora di 594 palestinesi ammazzati, secondo i dati ufficiali dell’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari dell’ONU), la distruzione delle strade e delle condutture divelte dai cosiddetti bulldozer blindati, gli attacchi ora anche con i droni sono gli elementi di una precisa strategia. Chiudere i campi profughi significa proseguire nel tentativo di demolire l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dal 1949 del rifugio palestinese e rappresenta, quindi, il cuore della questione politica. È già successo con l’iniziale sospensione dei finanziamenti all’UNRWA da parte di molti paesi occidentali, poi ripresi senza grande clamore. È proseguito con la chiusura dell’ufficio di Gerusalemme dell’UNRWA e lo spostamento di molti dei suoi funzionari ad Amman. Ora l’attacco si concentra sui campi profughi in Cisgiordania, da Betlemme a Gerico, sino a Jenin e Tulkarem, mostrando quanto le incursioni dei coloni israeliani nei piccoli paesi attorno a Nablus, per esempio, siano solo uno degli aspetti di un disegno molto più complesso.
Di questo disegno Gerusalemme est, e in particolare la Città Vecchia, è parte integrante. Non solo simbolica. È una parte eminentemente politica, anzi, che mette in gioco anche la più ampia instabilità regionale. Da anni il sionismo messianico punta alla definitiva conquista – immobiliare e urbanistica – della Città Vecchia, compresa la rottura dello status quo che vige(va) da secoli e che neanche la guerra dei Sei Giorni era riuscita a intaccare in modo così pesante. È stata una conquista realizzata in una ventina d’anni, a forza di espropri, di acquisti sottobanco, di pressioni.
La mezzaluna dei quartieri palestinesi che fanno da cintura alla Città Vecchia vede ora una presenza sempre più consistente dei coloni israeliani più radicali, che sono penetrati sin dentro il quartiere musulmano e – ora è evidente quello che già si sapeva da anni – sin dentro il quartiere armeno. L’ultimo baluardo è la Spianata delle Moschee, dove la presenza sempre più frequente dei coloni ha già cambiato l’atmosfera, l’armonia, l’omogeneità del terzo luogo santo dell’Islam. Il ministro Ben Gvir ha infine detto ciò che era già chiaro nei fatti: ha detto di aver pregato sulla Spianata, pratica proibita da entrambi i rabbinati in Israele, ashkenazita e sefardita. Ha dunque rotto lo status quo, lasciando campo libero a un cambiamento epocale per gli equilibri di Gerusalemme e per quelli della regione. Finora è stata la Giordania ad aver esercitato un controllo sulla Spianata. In primo luogo, perché la Giordania esercitava il potere su Gerusalemme est sino alla conquista del 1967 da parte di Israele. E poi in quanto custode della Spianata, nonché Stato che ha fatto inserire la Città Vecchia di Gerusalemme (con le antiche mura e i luoghi santi) nel patrimonio a rischio dell’umanità per l’Unesco. Un ostacolo internazionale alla presa del controllo totale della città da parte di Israele.
Anche nel caso di Gerusalemme, il tentativo è quello di diminuire quanto più possibile il numero e il peso dei palestinesi, e cioè di ben oltre un terzo degli abitanti della città. La strada verso l’etnocrazia, a questo punto, sarebbe sempre più libera, almeno nei desiderata dell’estrema destra israeliana che non trova più, nei partiti e partitini di centro, una opposizione di sostanza e di valori alle idee razziste del sionismo messianico.
Nell’immagine: bombardamento israeliano di Khan Younis il 9 maggio 2023, prima del 7 ottobre
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