Di pessimismo “esagerato”, di dietrofront e utopie
Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
• – Silvano Toppi
Appellarsi ai principi della Costituzione liberale non è un punto di arrivo, ma di partenza. Può essere un vero e proprio progetto politico
• – Andrea Ghiringhelli
Progetti miliardari in impianti per aggirare il blocco all’import
• – Redazione
Dopo due decenni di potere, il ‘sultano’ rischia; l’unità di tutta l’opposizione laica premiata nei sondaggi
• – Aldo Sofia
A proposito di “consumatori di imposte” e di altri stravaganti modi di definire i dipendenti pubblici
• – Alberto Cotti
Quando di mira va presa l’innovazione, possibilmente creativa - Di Paolo Rossi
• – Redazione
Oggi la giornata di mobilitazione dei dipendenti pubblici contro il taglio delle pensioni
• – Enrico Lombardi
Una recente decisione dell’Ufficio cantonale della migrazione concede che uno straniero nato e cresciuto in Ticino può restarci anche se povero
• – Alberto Cotti
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
José Antonio Kast, figlio di un nazista e nostalgico della dittatura, capitalizza su sicurezza e migranti e sconfigge il presidente progressista Boric
• – Redazione
Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
Ciò che forse più impressiona, nel momento attuale – ancora più dell’inflazione, dei fallimenti bancari, dei tassi di interesse in rimonta – è la voglia di dietrofront o di retromarcia generalizzata. Lo si scopre nell’accoppiamento di termini contrastanti di cui sta facendo dovunque largo uso la politica economica. Alla mitica globalizzazione che doveva portare la fortuna e la felicità per tutti, si contrappone ormai una inevitabile deglobalizzazione. Alla liberalizzazione o al libero scambio, il salutare duro protezionismo (di cui si sta facendo paladino Biden, affratellatosi al pioniere Trump e quindi tutto parte proprio dall’impero che fu faro e promotore del libero mercato, con l’Europa che ora non sa come difendersi o contrattaccare). Alla delocalizzazione delle produzioni- resasi vitale sia per essere competitivi (mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri e comprimendo i costi del lavoro, con riduzione dei prezzi e aumento dei profitti) sia per conquistare mercati o sfruttare meglio le risorse naturali – si va sostituendo a tutta forza, con incentivi fiscali e favori logistici, la re-localizzazione, il sano ritorno in patria e al locale. Alla oligarchia finanziaria, criticata e messa alle strette per le sue evasioni, le crisi via via provocate, l’assenza di regole e di etica, si torna ad allungare la mano politica e i soldi dei contribuenti-lavoratori, perché si sa chi comanda e tiene le corde dell’indebitamento privato e pubblico che imbriglia Stato, società, politica e lavoro. Mettiamoci poi la guerra, ritenuta scomparsa e ritrovata minacciosa sulla porta di casa, e l’effetto retromarcia è fortemente motivato e accentuato.
Perché siamo finiti dentro tutto questo e stiamo mangiandoci la coda? Sembrerà paradossale o fantasioso dirlo: per un’utopia o un’economia costruita su quell’utopia.
Abbiamo defenestrato dagli anni Ottanta in poi ideologie ritenute, oltre che dannose o criminali, utopiche: il comunismo, il marxismo nelle varie espressioni, il socialismo e persino il cristianesimo con le sue idee di umanità, giustizia, amore del prossimo, uso solidale dei beni. Abbiamo imposto una sola ideologia economica fondata su una sola utopia: la crescita infinita, divinizzata, la crescita materiale (espressa con le percentuali del prodotto interno lordo, il famoso pil), resa unico e assoluto obiettivo dell’uomo operante sulla terra e della politica.
Il tipo di economia impostoci e affermatosi, tanto da intrappolarci tutti come fosse l’ unica alternativa che dà benessere e felicità, è fondato su dei dogmi : ogni cosa va misurata con il denaro, il mercato è l’unico giudice credibile, nessuna azione è giustificata se non dà una redditività immediata, criteri imperativi sono la produttività, la competitività o la concorrenza che si ottengono comprimendo i costi, soprattutto i costi del lavoro (salario) ; conta ciò che si realizza nel breve tempo (cortoterminismo, assenza di progettualità, miopia e stupidità politica) ; l’espansione continua (la crescita) è il motore vitale e quindi anche la natura va sfruttata senza remissione per alimentarla.
Sono emerse almeno due contraddizioni che hanno mandato a sballo il paradigma. Primo, se comprimi i redditi, i salari, le pensioni, i trasferimenti sociali, comprimi anche la domanda e quindi la produzione e dunque l’economia. Che potrai perciò sostenere solo se creerai redditi artificiali (indebitamento privato che crea a sua volta l’indebitamento pubblico; fortuna quindi della finanza e delle banche). Secondo, il mondo è finito, la natura è finita, la crescita- nonostante la grande fiducia nella tecnologia- non può essere infinita, l’economia ha dei limiti e si deve tenerne conto.
L’orizzonte esistenziale della nostra epoca è dunque ormai occupato da due fattori: l’ingiustizia o le disparità accresciute dal sistema che hanno in sé una carica esplosiva enorme; la crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo diventano così ritornelli ricorrenti, riproposti come rimedi, ma privi di senso. La prima ha finito di essere utopia e, come dimostrano i fatti, si ferma o regredisce. Il secondo trova la crisi ambientale a sbarrare la strada ad ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.
E allora, pessimismo, pessimismo esagerato, equilibrismo ipocrita o esplosione delle contraddizioni e forzate retromarce in contraddizione con sé stessi?
No. Dovrebbe essere coscienza che un nuovo «paradigma-uomo» deve prendere il posto di quello innegabilmente fallimentare che abbiamo adottato. O che ci è stato imposto e che sta mettendo a rischio anche la democrazia, che non è matematica. Lo si chiami poi decrescita, sobrietà, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale, economia dei beni comuni, ma dev’essere una via d’uscita che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici, ricupero delle conoscenze ed esperienze o del patrimonio del lavoro, rivitalizzazione democratica. Il contrario di ciò che il sistema attuale ha mandato alla malora.
Se ne stanno riproponendo fotocopie: o sotto l’inflazionato attributo «sostenibile» oppure (nuovo cavallo di battaglia del maggior partito) paventando carestie e miserie solo se si ascoltano le Pizie del clima. Tutto sa molto di codino del barone di Münchhausen, quello che voleva tirarsi fuori dalla palude, lui e il suo cavallo, afferrandosi per i propri capelli.
È chiaro che la strategia del Comune era pronta da tempo: al primo pretesto cancellare, anche fisicamente, l’idea dell’autogestione da Lugano
L’attacco al simbolo del potere russo: ipotesi sulle responsabilità, stato d’animo della popolazione, possibili conseguenze