Di pessimismo “esagerato”, di dietrofront e utopie
Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
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Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
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Le parole d’ordine delle politiche economiche, da globale a locale, mostrano il loro aspetto paradossale andando a sbattere contro l’idea, tutta da dimostrare, della crescita infinita
C’è chi suggerisce equilibrio e non pessimismo o pessimismo esagerato (che è una sorta di ossimoro tra i denti). Quindi, meglio parlare, come dicono le previsioni delle istituzioni economiche che contano, di rallentamento economico ma non di recessione internazionale, di recessioni annue possibili ma non scontate per pochi Paesi. Sa di equilibrismo. O come dire: se non è zuppa è pan bagnato.
Ciò che forse più impressiona, nel momento attuale – ancora più dell’inflazione, dei fallimenti bancari, dei tassi di interesse in rimonta – è la voglia di dietrofront o di retromarcia generalizzata. Lo si scopre nell’accoppiamento di termini contrastanti di cui sta facendo dovunque largo uso la politica economica. Alla mitica globalizzazione che doveva portare la fortuna e la felicità per tutti, si contrappone ormai una inevitabile deglobalizzazione. Alla liberalizzazione o al libero scambio, il salutare duro protezionismo (di cui si sta facendo paladino Biden, affratellatosi al pioniere Trump e quindi tutto parte proprio dall’impero che fu faro e promotore del libero mercato, con l’Europa che ora non sa come difendersi o contrattaccare). Alla delocalizzazione delle produzioni- resasi vitale sia per essere competitivi (mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri e comprimendo i costi del lavoro, con riduzione dei prezzi e aumento dei profitti) sia per conquistare mercati o sfruttare meglio le risorse naturali – si va sostituendo a tutta forza, con incentivi fiscali e favori logistici, la re-localizzazione, il sano ritorno in patria e al locale. Alla oligarchia finanziaria, criticata e messa alle strette per le sue evasioni, le crisi via via provocate, l’assenza di regole e di etica, si torna ad allungare la mano politica e i soldi dei contribuenti-lavoratori, perché si sa chi comanda e tiene le corde dell’indebitamento privato e pubblico che imbriglia Stato, società, politica e lavoro. Mettiamoci poi la guerra, ritenuta scomparsa e ritrovata minacciosa sulla porta di casa, e l’effetto retromarcia è fortemente motivato e accentuato.
Perché siamo finiti dentro tutto questo e stiamo mangiandoci la coda? Sembrerà paradossale o fantasioso dirlo: per un’utopia o un’economia costruita su quell’utopia.
Abbiamo defenestrato dagli anni Ottanta in poi ideologie ritenute, oltre che dannose o criminali, utopiche: il comunismo, il marxismo nelle varie espressioni, il socialismo e persino il cristianesimo con le sue idee di umanità, giustizia, amore del prossimo, uso solidale dei beni. Abbiamo imposto una sola ideologia economica fondata su una sola utopia: la crescita infinita, divinizzata, la crescita materiale (espressa con le percentuali del prodotto interno lordo, il famoso pil), resa unico e assoluto obiettivo dell’uomo operante sulla terra e della politica.
Il tipo di economia impostoci e affermatosi, tanto da intrappolarci tutti come fosse l’ unica alternativa che dà benessere e felicità, è fondato su dei dogmi : ogni cosa va misurata con il denaro, il mercato è l’unico giudice credibile, nessuna azione è giustificata se non dà una redditività immediata, criteri imperativi sono la produttività, la competitività o la concorrenza che si ottengono comprimendo i costi, soprattutto i costi del lavoro (salario) ; conta ciò che si realizza nel breve tempo (cortoterminismo, assenza di progettualità, miopia e stupidità politica) ; l’espansione continua (la crescita) è il motore vitale e quindi anche la natura va sfruttata senza remissione per alimentarla.
Sono emerse almeno due contraddizioni che hanno mandato a sballo il paradigma. Primo, se comprimi i redditi, i salari, le pensioni, i trasferimenti sociali, comprimi anche la domanda e quindi la produzione e dunque l’economia. Che potrai perciò sostenere solo se creerai redditi artificiali (indebitamento privato che crea a sua volta l’indebitamento pubblico; fortuna quindi della finanza e delle banche). Secondo, il mondo è finito, la natura è finita, la crescita- nonostante la grande fiducia nella tecnologia- non può essere infinita, l’economia ha dei limiti e si deve tenerne conto.
L’orizzonte esistenziale della nostra epoca è dunque ormai occupato da due fattori: l’ingiustizia o le disparità accresciute dal sistema che hanno in sé una carica esplosiva enorme; la crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo diventano così ritornelli ricorrenti, riproposti come rimedi, ma privi di senso. La prima ha finito di essere utopia e, come dimostrano i fatti, si ferma o regredisce. Il secondo trova la crisi ambientale a sbarrare la strada ad ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.
E allora, pessimismo, pessimismo esagerato, equilibrismo ipocrita o esplosione delle contraddizioni e forzate retromarce in contraddizione con sé stessi?
No. Dovrebbe essere coscienza che un nuovo «paradigma-uomo» deve prendere il posto di quello innegabilmente fallimentare che abbiamo adottato. O che ci è stato imposto e che sta mettendo a rischio anche la democrazia, che non è matematica. Lo si chiami poi decrescita, sobrietà, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale, economia dei beni comuni, ma dev’essere una via d’uscita che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici, ricupero delle conoscenze ed esperienze o del patrimonio del lavoro, rivitalizzazione democratica. Il contrario di ciò che il sistema attuale ha mandato alla malora.
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