Diventiamo maestri del limite
Di Nicola Lagioia, La Stampa Scriveva Javier Cercas che per lui il mistero dell’Europa si può considerare simile a quello del tempo affrontato da Sant’Agostino nelle Confessioni:...
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Di Nicola Lagioia, La Stampa Scriveva Javier Cercas che per lui il mistero dell’Europa si può considerare simile a quello del tempo affrontato da Sant’Agostino nelle Confessioni:...
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Scriveva Javier Cercas che per lui il mistero dell’Europa si può considerare simile a quello del tempo affrontato da Sant’Agostino nelle Confessioni: «Se nessuno mi domanda cos’è l’Europa lo so; però, se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, ecco che non lo so più». Si potrebbe aggiungere, a quello temporale, un elemento spaziale: per noi europei («Cos’è l’acqua?» si domandano i due pesci del famoso apologo, nuotando nel loro elemento naturale) è difficile stabilire cosa sia davvero il Vecchio Continente finché ci stiamo dentro. Basta però una settimana in Asia, nelle Americhe, in Africa perché il sentimento dell’Europa diventi in noi più chiaro, e forse più caro.
Secondo un celebre ragionamento di George Steiner a definirci, oltre ai caffè e alle piazze (luoghi quotidiani e magici, laboratori filosofici, incubatori di rivoluzioni politiche e artistiche), a una natura addomesticata (viviamo nel più antropizzato dei continenti), a una cultura verticale (nessun continente è così carico, o forse dovremmo dire caricato, di Storia), l’Europa sarebbe indistinguibile dalla propria escatologia, dalla coscienza della caducità, dal sentimento della fine, la consapevolezza, vale a dire, che se c’è stata o c’è una civiltà europea, questa civiltà a un certo punto non sarà più.
Così come l’Occidente è la terra del tramonto, l’Europa, che di quell’Occidente sarebbe la scaturigine (ma andiamoci piano coi miti fondativi, sempre diffidare del professor Heidegger), l’idea del declino, della crisi, del crollo, ce l’avrebbe nel sangue. Oggi parliamo tanto di “declino europeo”. Se il Novecento è stato sì il “secolo americano” ma con l’Europa ancora grande protagonista politica e culturale (basti pensare al cinema, alla letteratura, al teatro), nel XXI secolo gli Stati Uniti saranno forse ciò che è stata l’Europa per il XX, mentre altri mondi (la Cina, l’India, il Brasile, la Nigeria) diventeranno centrali. All’Europa non resterebbe che rivoltarsi nella porpora delle sue ceneri, dei propri antichi fasti.
Ma forse le cose non stanno così.
In un mondo che vuole infrangere un record dopo l’altro, che si crede invincibile e immortale, che rimuove il sentimento della morte condannandosi in questo modo a un’infelicità sempre più conclamata, ricordare non solo l’importanza ma l’inevitabilità del limite, la natura transitoria e caduca d’ogni cosa, può essere un antidoto per i deliri d’onnipotenza da cui nessuno, tra i grandi giocatori sullo scacchiere globale, mi sembra oggi al riparo. Dopo avere dominato il mondo (ma non lo domina più da molto tempo), l’Europa potrebbe assumersi questo compito? Farsi saggia maestra di declino, quindi maestra anche di limite, di temperanza, in un mondo che a volte sembra andare dritto sparato verso la catastrofe? Sì e no, verrebbe da rispondere.
A differenza degli Stati Uniti (per i quali non l’idea di fine ma già solo di declino è intollerabile) l’Europa ha visto se stessa morire e poi rinascere numerose volte. Alla catastrofe, verrebbe da dire, ci abbiamo fatto il callo. Lo stesso Cercas, riprendendo Steiner, alle caratteristiche citate aggiungeva che l’Europa è lo scrigno di un’eredità doppia, contraddittoria e inseparabile: quella di Atene e di Gerusalemme, della ragione e della rivelazione, di Socrate e Gesù Cristo, che proprio attraverso la propria fine hanno originato qualcosa di completamente nuovo.
L’Europa, però, ha tra i suoi motivi identitari anche il rovesciamento (spesso violento) del paradigma. La rivoluzione di Francia e d’Ottobre. La psicoanalisi e la relatività. Freud, Marx, Bruno, Nietzsche, Einstein. In nessun continente l’assalto all’ordine costituito (scientifico, culturale, politico, artistico) è stato praticato con più veemenza, liberatoria in certi casi, suicida in altri.
Saprà trasformare L’Europa quella veemenza in un’energia creativa adatta ai nostri tempi? Questa forse è la domanda. Insegnerà la “buona fine” che si porta dentro, e saprà farlo più alla maniera di Socrate che di Wagner? Ricorderà e saprà ricordare soprattutto – come insegnano due dei suoi testi sapienziali più importanti, belli, centrali e poco letti oggi, Le metamorfosi di Ovidio, il De rerum natura di Lucrezio – che ogni fine è una trasformazione?
L’alternativa è quasi peggio dell’oblio e della damnatio memoriae: diventare il turistificio dei nuovi ricchi del pianeta, la terra dove si va a finire, sì, ma per motivi pensionistici.
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