Durov e lo strapotere social, non c’è libertà senza limiti
Di Fabrizia Giuliani, La Stampa È in gioco la libertà, ripetiamo continuamente a proposito di questioni molto diverse tra loro. È in gioco la libertà, dunque dobbiamo difenderla:...
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Di Fabrizia Giuliani, La Stampa È in gioco la libertà, ripetiamo continuamente a proposito di questioni molto diverse tra loro. È in gioco la libertà, dunque dobbiamo difenderla:...
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È in gioco la libertà, ripetiamo continuamente a proposito di questioni molto diverse tra loro. È in gioco la libertà, dunque dobbiamo difenderla: questo è il frame – lo schema che si attiva, direbbe il vecchio Lakoff. La libertà è un bene nel quale ci riconosciamo, un bene da tutelare e garantire, chi la minaccia diventa avversario, non solo nel gioco argomentativo. Lo schema vale oltre le culture politiche, i confini geografici e religiosi: anche i paesi autoritari affermano di difendere e amare la libertà e ne invocano la tutela per giustificare azioni repressive, non è difficile trovare esempi nella storia e nell’oggi. Bisogna partire da qui, da una parola che è pronta a capovolgersi nel suo rovescio, meglio, a essere usata nel suo senso opposto per capire il dibattito che si è aperto sulla libertà di espressione dopo l’arresto di Pavel Durov in Francia, il 24 agosto scorso.
Il fondatore e amministratore di Telegram è ritenuto responsabile di attività criminali realizzati sulla sua app di messaggistica lanciata nel 2013, alla quale sono iscritti 900.000 utenti di ogni parte del mondo. Al netto di come davvero funzionino i criteri di applicazione della crittografia, la distribuzione dei server e la conservazione di dati, Telegram è nota e ricercata per l’impenetrabilità e la garanzia di anonimato. Al contempo, è una piattaforma duttile: l’unica a poter ospitare chat con oltre 200.000 iscritti dove ci si può scambiare «contenuti» di ogni genere. Solo su Telegram, rivendica il suo fondatore, gli utenti sono al riparo da incursioni esterne – leggi governi o autorità: la privacy, ribadisce, è valore non negoziabile, costi quel che costi. Ma quali sono esattamente questi costi e, soprattutto, chi paga il prezzo di questa libertà di espressione?
Sui migliaia di canali Telegram viaggia di tutto: è stato un luogo sicuro per chi ha cercava informazioni inaccessibili nei regimi autoritari, ha garantito anonimato ai dissidenti e ai perseguitati. Ma garantisce anche libera circolazione al traffico di materiale pornografico e pedopornografico – ragazzi e ragazze, bambini e bambine – al mercato di stupefacenti, alla pubblicazione di contenuti violenti sotto profili diversi. Non occorre proseguire nella lista, il tema che questa vicenda pone va molto oltre la policy della piattaforma e il suo fondatore, data la levata di scudi internazionale che ha portato politici, imprenditori e capi di Stato, a lamentare la minaccia alla libertà di espressione. Sembra paradossale, quasi un ossimoro, leggere le parole di Musk, le dichiarazioni di Lavrov o Ali Khamenei, ma è andata proprio così. E non è certo una coincidenza la lettera di Zuckerberg alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, dove si rammarica di aver ceduto all’amministrazione Biden censurando contenuti relativi alla pandemia – fake news – e afferma «oggi non lo rifaremmo»; detto in altre parole: abbiamo imparato a non accettare ingerenze, e non porre limiti. Ma una libertà che non si misura con il limite, può ancora dirsi tale? Questo è il crinale su cui deve misurarsi oggi la libertà di espressione, oggi che i confini tra natura, cultura, storia e tecnologia sono completamente ridefiniti e siamo più liberi, dunque, più responsabili del potere e delle conseguenze delle nostre parole. Oggi che sappiamo – dovremmo sapere – che non siamo monadi ma dipendiamo gli uni dagli altri, che la tutela di questo spazio comune – sulla terra e nell’etere – è l’unico bene non negoziabile. Oggi che dovremmo aver imparato, si spera, a distinguere la sopraffazione dalla libertà, anche quando si maschera a dovere.
Nell’immagine: Durov e gli aeroplaninini di Telagram
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