E il camminar m’è dolce tra queste lapidi
Un gustosissimo saggio si sofferma sui piccoli cimiteri e su quanto riservano al viandante che vi accede: microcosmi in cui sedimentano storia, storie, riti e comportamenti
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Un gustosissimo saggio si sofferma sui piccoli cimiteri e su quanto riservano al viandante che vi accede: microcosmi in cui sedimentano storia, storie, riti e comportamenti
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Un gustosissimo saggio si sofferma sui piccoli cimiteri e su quanto riservano al viandante che vi accede: microcosmi in cui sedimentano storia, storie, riti e comportamenti
Nel marzo scorso, Visentin ha scritto e pubblicato Passeggiate nei piccoli cimiteri (Ediciclo Editore). Incuriosito e spinto dalla precedente lettura di In viaggio con l’asino, (Guanda, 2009), che scrisse insieme a Andrea Bocconi, queste passeggiate sono un ottimo punto di partenza per quanti volessero aggiungersi al novero dei cultori di questa forma di turismo non comune, che si consuma forzatamente solo a piedi e che, lungo il cammino, confonde e sovrappone piani diversi: tu, vivo, cammini tra i morti, tra – a seconda delle dimensioni del camposanto – poche decine o decine, centinaia di migliaia di trapassati. Tu guardi le loro tombe (o quel che ne rimane), leggi su lapidi a tratti consunte la descrizione sommaria di vite quasi sempre virtuose e impeccabili nutrite dall’attaccamento alla famiglia, al lavoro, alla patria, ai princìpi e ai valori più nobili (altruismo, generosità, sopportazione e rassegnazione) quando la fine si avvicina. Percorrendo viali e vialetti, accompagnato generalmente dal silenzio o dal solo rumore dei passi altrui e di qualche volatile in transito, qualcosa ti colpisce sempre attirando la tua attenzione: il paesaggio circostante, l’architettura e la scultura cimiteriale, un nome o un cognome di cui non riesci a capire l’origine, una data di morte che ricorre più spesso di altre perché c’è stata una guerra, un’epidemia, una carestia, un disastro. In letteratura un titolo su tutti, un classico, Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, capolavoro del 1915, più volte tradotto anche in italiano sin dal 1946 (Fernanda Pivano) e in parte ripreso da Fabrizio De André nell’album Non al denaro né all’amore né al cielo (1971). Una delle edizioni più ricche (il Saggiatore, 2016, euro 24) è curata dal poeta Antonio Porta. Sono 246 poesie in cui “Le voci degli abitanti di Spoon River si rincorrono tra le lapidi del cimitero in collina che ne accoglie le sepolture e raccontano le loro storie – a volte segrete e oscure, spesso disperate –, confessano i loro rimorsi, ricordano i momenti di gioia, si incolpano a vicenda delle disgrazie per cui sono trapassati”.
Segnalo, per sense of humour, il racconto autobiografico Il cancello chiuso, tratto da Albergo Italia del solitamente poco allegro Guido Ceronetti (Einaudi, 1985), in cui lo scrittore e giornalista narra di quando rimase chiuso per ore in un cimitero piemontese: “Passavo per Cuneo: era un’ora morta, l’una e mezza pomeridiana, l’ora ideale per una visita alle lapidi e ai monumenti funebri, in cerca di un po’ di vita e di storia”.
Camminando tra le tombe, fatalmente pensi anche a te stesso: ho un amico ipocondriaco che il cimiturismo lo pratica a fini terapeutici, una forma di esorcismo illuminato da una precisa consapevolezza: fintantoché in quei luoghi cammini, sei vivo. Nel frattempo, cominci pian piano, slowly (anzi, pole pole) a prenderne le misure. Più d’uno avrà notato come non sia mai tramontata l’abitudine – geograficamente trasversale – di molte persone in là con gli anni, ma ancora in buone condizioni, di ritrovarsi proprio sulle panchine alle porte di un cimitero.
La letteratura cimiteriale è ricchissima e quelli da visitare in chiave cimituristica anche in casa nostra sono molti. Mi spingo oltre(tomba): non c’è cimitero (minuscolo o monumentale, di montagna o di guerra, riservato ai bambini o ai senza nome) a cui non valga la pena accedere già in vita. Quello di Lugano (nel 2016 gli è stata dedicata una guida dalla Società di storia dell’arte in Svizzera) ospita monumenti su commissione firmati da scultori che anche con i loro Memento mori e i loro Compianti si guadagnavano il pane: Vincenzo Vela, Antonio e Giuseppe Chiattone, Remo Rossi. C’è anche una tomba firmata da Mario Botta sulla quale sospendo rispettosamente il giudizio.
Ai grandi cimiteri urbani si aggiungono i piccoli cimiteri di paese, di valle e di montagna: quello del mio Comune, Torricella-Taverne, era tragicomicamente “assurto agli onori della cronaca” nel 2016. E poi ci sono cimiteri semiabbandonati come quello di Neggio, nel Malcantone: le lapidi sono scheggiate o consunte, nomi, estremi cronologici ed epitaffi spesso difficilmente leggibili o del tutto cancellati.
Andar per cimiteri non è un esercizio dolente e funebre, ma anzi la possibilità di incontrare virtualmente (ma non il virtuale che va di moda oggi) individui e vite altrui che diversamente non avresti mai conosciuto. Nessuna curiosità un po’ morbosa (che invece entra a tratti in gioco quando scorriamo gli annunci funebri nei quotidiani), anche perché gran parte dei defunti in cui ci si imbatte sono ormai tali da decenni, qualcuno da oltre un secolo.
Ho consumato buona parte dello spazio a disposizione senza addentrarmi nel gradevolissimo volume scritto da Claudio Visentin. Nel prologo egli tratteggia un efficace ritratto dei cimituristi: “passeggiano per i vialetti dei cimiteri come se fossero in un giardino, riconoscono piante, fiori e uccelli. Sostano davanti a una tomba, compiono piccoli gesti di pietà, strappano erbacce, raddrizzano un vaso di fiori rovesciato; ipotizzano genealogie e cercano di ricostruire vite sino a quel momento completamente estranee. Leggono gli epitaffi, apprezzano e meditano i più riusciti, colgono ingenuità e involontarie ironie. Contemplano i monumenti e la loro battaglia, perduta in partenza, contro la corruzione. A loro modo riflettono sul tempo, sul passato, sulla morte, sulla vita”.
L’autore ci prende per mano, ci dà delle dritte, ci suggerisce una serie di cimiteri insoliti, sorprendenti, immancabili: le Catacombe dei Cappucini appena fuori dal centro di Palermo); il Cimitero degli Inglesi a Firenze, che oggi sembra una grande area spartitraffico ovaloide lungo uno dei viali che circondano il nucleo storico e che ispirò lo svizzero Arnold Böcklin per i suoi cinque dipinti intitolati Die Toteninsel (L’isola dei morti): la prima e miglior versione è al Kunstmuseum di Basilea; la terza era appartenuta a Hitler, “una delle sue tante lugubri ossessioni”, annota Visentin); quello monumentale di Staglieno a Genova (Fabrizio De André); quello sull’Isola di San Michele a Venezia (che accoglie Ezra Pound, Iosif Brodskij, Igor’ Stravinskij, Emilio Vedova, Luigi Nono, ma anche il Mago Helenio Herrera).
Insomma, fidatevi: Passeggiate nei piccoli cimiteri è un libro di piacevolissima lettura, una guida preziosa, originale, curiosa, in cui (sulla carta, in attesa di andarli ad annusare/ respirare sul posto) scopriamo luoghi, ma anche storie individuali che diventano etnografia e sociologia; sfioriamo gente “comune” e personalità della letteratura, delle arti e della politica. Leggiamo citazioni di ogni cultura ed epoca (dalla preistoria a Franco Arminio) legate al tema della morte; possiamo conoscere e confrontare atteggiamenti, abitudini, riti e usanze diverse che ogni etnìa e ogni confessione adotta nel ricordo dei defunti.
Il mondo, conclude Visentin, “è un immenso cimitero. Su questa nostra terra hanno vissuto oltre 100 miliardi di uomini e donne; per ogni persona viva oggi, ci sono stati 15 morti in altre epoche” e prosegue: “Proprio perché i morti vivono in noi (…) è tanto più incomprensibile la recente rimozione della morte dal nostro orizzonte culturale. La morte è l’ultimo tabù, da quando il sesso è stato addomesticato, privato della sua oscura forza, banalizzato nella conversazione quotidiana. Della propria morte invece nessuno parla. D’altronde sono sempre gli altri che muoiono, è l’ironico epitaffio dell’artista Marcel Duchamp.
Non riusciamo neppure più a nominare la morte, quasi avessimo smarrito le parole, sostituite da elaborati eufemismi (…). Fare spazio alla morte nella nostra vita vuol dire superare la chiusura dell’individuo, accettare la responsabilità della storia, venire a patti con la cultura e la civiltà. Per questo, pur nella sua programmatica leggerezza, la frequentazione dei cimiteri è un passo nella giusta direzione”.
La guida di Visentin mi ha accompagnato, qualche settimana fa, in vacanza a Minorca, dove una delle escursioni più interessanti da fare è quella al Lazzaretto, costruito tra il 1793 e il 1807 per volere del re Carlo III. Sorge su un isolotto prospicente la baia della capitale Maó ideato per ospitare, in rigida quarantena, chiunque volesse entrare in Spagna, difendendola così dalle epidemie. Imponente, quasi inaccessibile, protetto da due cerchie di mura, poteva accogliere migliaia di “ospiti”, il 99% dei quali ne uscì vivo e vegeto dopo la vacanza forzata. Naturalmente vi era stato allestito anche un grande cimitero, che fortunatamente si rivelò quasi del tutto inutile e che oggi, quasi surreale, accoglie non più di una decina di tombe.
Nell’immagine: antiche lapidi nel cimitero di Neggio
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