Dal nostro corrispondente da Mosca
Vladimir Vladimirovich Kara-Murza, 43 anni, attivista politico e giornalista russo-britannico di orientamento liberale. Kara-Murza è stato uno dei sedici prigionieri che il 1° agosto scorso è stato graziato nell’ambito dello scambio di prigionieri tra Federazione e Paesi Occidentali. Kara-Murza e gli altri sono stati trasportati in Turchia, dove sono stati scambiati con otto russi detenuti nei Paesi occidentali.
Kara-Murza tra il 2015 e il 2017 ha accusato il FSB, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa, di aver tentato di avvelenarlo due volte. Il 17 aprile 2023 è stato condannato, con l’accusa di tradimento e “diffusione di disinformazione” sulle forze armate russe, a 25 anni di carcere.
Questa è una delle prime interviste (realizzata al telefono) concesse da Vladimir dopo essere stato liberato. Attualmente l’attivista si trova in Germania. Non ha inteso parlare in questo contesto delle sue prospettive politiche, che definirà a partire dalle prossime settimane.
Una volta libero hai dichiarato: “pensavo che sarei morto in prigione”
L’ ho pensato all’inizio del settembre del 2023. Il capo dell’unità medica del centro di detenzione preventiva di Vodnik mi disse in una conversazione privata: “Vladimir Vladimirovich, hai un anno e mezzo di vita”. Già, perché una prigione russa non è il posto migliore per una persona, anche se in perfetta salute. Allo stesso tempo – e qui una cosa non contraddice affatto l’altra – sono un grande ottimista per natura, e (forse ancora più importante) uno storico per formazione. Ho ricevuto molte lettere in prigione, Molte di esse erano piene di disperazione, di sconforto, e molte persone erano abbattute….
A causa dell’isolamento in cui sono tenuti i prigionieri politici – soprattutto quelli che le autorità considerano i loro principali nemici – la società civile non comprende appieno, mi sembra, cosa succede esattamente in carcere. Potresti descrivere cosa significano per esempio dieci mesi di isolamento?
Si tratta di una tradizione molto antica, molto poco nobile e molto sovietica nel nostro Paese: i prigionieri politici che le autorità consideravano particolarmente pericolosi per un motivo o per l’altro vengono tenuti nelle condizioni più dure e in completo isolamento. Ad esempio, a suo tempo Anatoly Borisovich Shcharansky, noto personaggio pubblico, attivista per i diritti umani e uno dei fondatori del Gruppo di Helsinki di Mosca, trascorse 405 giorni in celle di isolamento punitivo. Alexey Navalny trascorse un totale di 295 giorni in cella di punizione.
Sapevo già prima del mio arresto che secondo il Diritto Internazionale l’isolamento prolungato equivale alla tortura, a un trattamento crudele e inumano. Inoltre, 15 giorni consecutivi sono considerati isolamento prolungato. Io sono stato in isolamento per quasi undici mesi ininterrottamente. Devo essere sincero, prima del carcere, prima di vivere questa esperienza in prima persona, non riuscivo a capire: che cos’è la tortura. Pensavo che se si sta seduti da soli si può scrivere quello che si vuole, si leggono libri, ecc. Solo una persona che non sa cosa sia la prigione però può pensare questo. È davvero una tortura.
I libri erano impossibili da leggere. Le righe si confondono. Leggi una pagina e non capisci cosa c’è scritto, la rileggi, poi ancora e ancora. Vladimir Bukovsky ne parla nel suo libro Il vento va e poi ritorna (Feltrinelli, 1978). È un grande libro, uno dei più importanti della mia vita. Forse il più importante. Quando l’ho riletto in prigione mi sono stupito che non fosse cambiato nulla da allora. Tutto ciò di cui scrive sta accadendo ancora oggi.
Anche scrivere in carcere è impossibile: ti danno carta e penna solo per un’ora e mezza al giorno. Il resto del tempo si cammina per la piccola cella, due metri per tre, da un angolo all’altro. Oppure si cerca di leggere il più possibile. Oppure si sta seduti a fissare il muro. E ci si siede su un piccolo sgabello, perché alle cinque del mattino la branda è fissata al muro e viene aperta solo alle nove di sera, quando si deve andare a letto.
Ma non è tutto. Oltre alla reclusione permanente, all’inattività forzata, al completo isolamento, il mio status di detenuto a “regime duro” comporta il divieto assoluto di comunicare telefonicamente con la famiglia. Anche questa è una tradizione molto sovietica. Le autorità del nostro Paese combattono non solo con gli avversari politici, ma anche con le loro famiglie. Ai tempi dello stalinismo “cannibale” venivano imprigionati ed esiliati i familiari dei “nemici del popolo”. Nei tempi più, come si suol dire, “vegetariani”, venivano semplicemente schiacciati, perseguitati, vessati e impediti di comunicare con i loro cari.
Durante i due anni e quattro mesi in cui sono stato in prigione, ho potuto parlare al telefono una volta con mia moglie e due volte con i miei tre figli. Mi hanno dato 15 minuti per telefonata, e ancora oggi mia moglie mi ha detto che si è messa in piedi con un cronometro per assicurarsi che nessun bambino parlasse con me per più di cinque minuti, in modo che tutti avessero quei cinque minuti. È una tortura anche per le famiglie, non solo per noi.
Cosa succedeva nell’ospedale della prigione? Lo hai definito peggiore dei 13 istituti di polizia e penitenziari che ha visitato in questo periodo.
Nel sistema penitenziario russo, la città di Omsk è un nome noto. Ha il regime più mostruoso, infernale. Non lo sapevo. Ricordo che l’anno scorso, quando sono stato portato da Mosca in Siberia, mi hanno messo in una cella di smistamento con altri detenuti. Siamo riusciti a chiacchierare per mezz’ora. E quando la guardia è arrivata e ha detto: “Kara-Murza, Omsk”, tutti intorno a me si sono improvvisamente ammutoliti e mi hanno guardato con un po’ di compassione. Ho capito cosa stava succedendo solo quando sono arrivato lì.
Non sono sorpreso di essere stato mandato a Omsk. È un dettaglio curioso: durante l’appello contro una delle cosiddette sanzioni, furono letti in tribunale i documenti del mio fascicolo personale. E tra questi c’era un documento interessante. Nel maggio 2023, il primo vice-capo del Servizio Penitenziario Federale Valery Boyarinev inviò un ordine personale al capo del campo “Vodnik” di Mosca, affinché fossi inviato nella regione di Omsk per scontare la mia pena. Descriverei il regime di Omsk come una via di mezzo tra un campo di concentramento e un manicomio. È un regime portato all’assurdo, assolutamente ipertrofizzato. Tutto si svolge virgola per virgola, secondo per secondo, punto per punto. Bisogna tenere le mani dietro la schiena, anche se si fanno due passi. Un passo a destra, un passo a sinistra. Non si può fare nessun movimento inutile. Perquisizioni continue. In carcere è importante tenere sotto controllo le emozioni, ma sarò sincero: non sempre ci si riesce quando si è dentro.
In carcere hai perso 25 chili. In Viaggio nella vertigine (Mondadori, 1967) Evgenya Ginzburg, deportata nel Gulag nel 1937, ha raccontato che dopo diversi anni di carcere si era guardata allo specchio e si era riconosciuta solo per la somiglianza con sua madre. Tu come ti percepivi?
Non c’era uno specchio in cella, ovviamente. C’era solo nel bagno. In qualche modo non ci ho nemmeno fatto caso, si vive ogni giorno con sé stessi. È stato uno shock per le persone che non mi vedevano da tempo. Ricordo che quando mi portarono [prima dello scambio, ndr] all’autobus dell’FSB, la prima cosa che mi disse Ilya Yashin fu: “Che aspetto di merda hai!”. Solo che ha usato una parola più forte. Ho risposto: “Ilyukh, grazie per il complimento”.
A proposito di paralleli storici, mi sono ricordato che Aleksandr Solzhenitsyn scrisse in “Arcipelago Gulag” che trovava sempre divertente pensare ai funzionari del partito sovietico che andavano nei sanatori d’élite per perdere da un chilo e mezzo a due chili. Scriveva: “Vi consiglio il Gulag sovietico. Un paio di mesi e vi libererete completamente del problema dell’eccesso di peso”. Posso confermarlo con la mia esperienza.
Durante la conferenza stampa hai citato Vladimir Bukovsky, espulso dall’URSS nel 1976. Perché?
Come storico sono stato molto coinvolto nel movimento dei dissidenti e ho avuto l’onore di conoscere personalmente alcune di queste persone. Bukovsky ha avuto un’enorme influenza sul mio sviluppo personale e per molti versi mi ha educato. Quando la mia attività era appena agli inizi, vedevo dei paralleli con il movimento dei dissidenti, con le repressioni degli anni Sessanta e Ottanta. Ma man mano che il caso si sviluppava, ovviamente, sono cominciati ad apparire sempre più paralleli con l’epoca di Stalin.
Kara-Murza durante un processo
In primo luogo, la natura completamente chiusa del processo. Nemmeno i dissidenti avevano mai vissuto un’esperienza del genere: i posti a sedere nell’aula erano occupati da un pubblico preselezionato dal Gabinetto, e amici e colleghi non potevano entrare. Tuttavia i parenti potevano passare, si poteva vedere il volto di un parente nella sala. A nessuno è stato permesso di vedermi. Per l’annuncio del verdetto la sala in stile anni ’70 si è riempita di un pubblico preselezionato, mentre tutti coloro che erano venuti a sostenermi sono rimasti fuori. E, naturalmente, mi ha impressionato la sentenza. L’ultima volta che sono state inflitte condanne a 25 anni ai prigionieri politici era stato sotto Stalin.
Anche il fatto che nel mio caso la critica alle autorità sia stata equiparata in modo assolutamente ufficiale al tradimento della Madrepatria risale all’epoca di Stalin.
Quando hai capito che saresti stato scambiato, e non rischiavi più di morire?
All’ultimo momento, quando mi hanno portato nell’autobus dell’FSB nel cortile di Lefortovo [storica prigione di Mosca, ndr]. Tutto è iniziato martedì scorso, 23 luglio. All’improvviso, la porta della mia cella si è aperta. Due agenti in uniforme sono entrati e mi hanno portato nell’ufficio dell’edificio del PCC. Sulla parete c’è un grande ritratto di Putin, sul tavolo un foglio bianco e una penna. Mi dicono: “Vladimir Vladimirovich, siediti e scrivi”. Guardo, ed era una richiesta di grazia indirizzata al cittadino Putin: “Ammetto pienamente la mia colpa e mi pento di ciò che ho fatto” e così via, era scritto.
All’inizio ho pensato che mi stessero prendendo in giro e ho riso. Ma loro si sono rivelati privi di umorismo. Gli ho spiegato: “Non sottoscriverò la grazia In primo luogo perché non considero il cittadino Putin un presidente legittimo, lo considero un usurpatore, un dittatore e un assassino. In secondo luogo, non c’è alcuna colpa da parte mia. Sono in prigione solo per le mie opinioni, per le mie convinzioni, per i miei discorsi contro la guerra”.
E come è stato il viaggio?
Mentre l’aereo stava decollando l’agente del FSB seduto vicino a me ha detto: “Guarda fuori dal finestrino, questa è l’ultima volta che vedi la madrepatria”. Ho riso: “Sono uno storico e non mi limito a pensare o a credere, so per certo che tornerò. E sarà molto prima di quanto pensiate”. Abbiamo volato per tre ore o tre ore e mezza. Quando siamo atterrati abbiamo visto dai finestrini altri aerei e due autobus. Io ero l’ultimo in cabina. Il mio funzionario dei servizi mi ha guardato e mi ha avvertito: “Vladimir Vladimirovich, ora stai attento a quello che mangerai, sai come vanno queste cose”. Queste sono state le ultime parole che ho sentito dai nostri accompagnatori.
Nell’immagine: Vladimir Kara-Murza in una foto di famiglia scattata dalla moglie Evgenia