Di Fabiana Magrì, La Stampa
MATZUVA. I cercapersone si sono surriscaldati. Poi hanno emesso un “beep”, come per richiamare chi, in quel momento, non l’avesse con sé. Pochi secondi dopo, che si trovassero nella tasca o tra le mani degli uomini di Hezbollah che li usavano per comunicare, sono esplosi. È stata una catena di eventi simultanei che ha coinvolto migliaia di dispositivi che si trovavano nella periferia meridionale di Beirut, nel quartiere Dahia controllato da Hezbollah, così come nell’area della valle della Bekaa settentrionale, di Tiro, Bint Jbeil e nel Libano meridionale, a Nabatieh. Anche l’ambasciatore iraniano Mojtaba Amani è rimasto ferito, secondo l’agenzia di stampa di Teheran, Mehr News.
Nei luoghi dove le persone hanno iniziato a saltare per aria – nei mercati, per le strade, nei negozi, nelle abitazioni – la popolazione è assalita dal panico. Anche la dirigenza del gruppo si trova avvolta in una nebbia di confusione. I morti sono almeno undici, secondo i media libanesi. Quattromila i feriti, di cui 200 in gravi condizioni. Gli ospedali lavorano a pieno regime, fino al collasso. Gli appelli per cercare donatori di sangue si moltiplicano.
Hezbollah non ha dubbi. Nemmeno un’ora dopo, accusa Israele di essersi infiltrato nel sistema di comunicazione di singoli dispositivi e di averli fatti saltare in aria. Basta un’ora anche per ammettere che si è trattato della «più grande violazione di sicurezza» a cui il Partito di Dio sia mai stato esposto. L’attacco – cyber o hackeraggio – è frutto di una combinazione di pianificazione accurata e avanzata tecnologia. C’è la firma del Mossad, insomma. Ma Israele non fiata e non si assume la paternità dell’impresa. Una fonte di sicurezza libanese dice ad Al Jazeerache i cercapersone erano entrati nel Paese cinque mesi fa e “caricati” con trappole esplosive del peso non superiore ai 20 grammi l’una. Il pensiero va alla campagna di lettere esplosive condotta dal Mossad contro attivisti palestinesi in tutta Europa dopo l’attentato delle olimpiadi di Monaco del 1972. O al virus informatico Stuxnet, attribuito a Usa e Israele ma mai confermato, che provocò un’ondata di attacchi digitali contro l’Iran, per sabotarne il programma nucleare. Fino alla recente eliminazione di Ismail Haniyeh, con un ordigno esplosivo piazzato sotto il suo letto, nella struttura dove alloggiava a Teheran durante la cerimonia di insediamento del neo-eletto presidente Massoud Pezeshkian.
La sensazione che qualcosa di eccezionale stesse per accadere – in questi giorni, in queste ore – era palpabile in Israele. Soprattutto lungo il suo confine settentrionale. Anche ieri le sirene d’allarme nelle comunità israeliane nel Nord del Paese sono suonate più volte, tra Manara e Shtula.Nelle ultime due settimane, tuttavia, «c’è stato un aumento nella quantità di attacchi – circa 30 su 160 – nelle aree non evacuate», quantifica Sarit Zehavi, ex tenente colonnello dell’intelligence militare specializzata nell’affrontare le sfide alla sicurezza di Israele ai suoi confini settentrionali, nella sede dell’Alma Research and Education Center, a Tefen, in Alta Galilea. Anche per questo motivo, lunedì sera, il governo ha formalizzato la decisione aggiungere l’obiettivo di riportare gli israeliani sfollati nelle loro case al Nord tra quelli ufficiali della guerra.
I segnali erano anche altri. Nel corso della giornata di ieri, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il capo della Difesa Yoav Gallant – che fino a poche ore prima sembrava lì lì per essere licenziato dal premier – hanno condotto riunioni dalla portata «straordinaria», secondo i media israeliani, insieme con altri funzionari della Difesa. E sempre ieri mattina, gli agenti dello Shin Bet – i servizi segreti interni – hanno reso pubblico di aver sventato un piano di Hezbollah per uccidere un funzionario della sicurezza israeliano. «Un segnale che il conflitto rischia di spostarsi anche all’interno di Israele», commenta Zehavi. E che attribuisce allo straordinario evento di ieri in Libano il peso dell’«ultima possibilità per Hezbollah di abbandonare il Sud del Paese, che è ciò di cui abbiamo bisogno per riportare gli israeliani nelle loro case».
Altri si aspettano piuttosto un’ulteriore escalation. E alcuni, sui canali Telegram della propoaganda, azzardano la previsione che l’attacco israeliano sia stata una distrazione per scatenare il caos nella linea di comando di Hezbollah e creare condizioni più favorevoli a manovrare le truppe di terra oltre il promontorio di Tiro, la catena montuosa che separa i due Paesi. Intanto il premier Netanyahu, il ministro Gallant e i veritici militari stanno conducendo riunioni e aggiornamenti dal bunker sotterraneo della Kirya a Tel Aviv.
L’analista del quotidiano israeliano Yediot Ahronoth, Nadav Eyal, ammette che Israele si è trovato impreparato sul fronte di Hamas a Gaza ma assicura che ha trascorso anni a prepararsi per una nuova guerra con Hezbollah. «Ciò non garantisce un risultato chiaro per una guerra prolungata – scrive su X – ma può riservare alcune sorprese tattiche». Più rassegnato, Ishay Efroni, il capo della sicurezza civile dell’amministrazione locale, mentre pattuglia il kibbutz fantasma di Metzuba. «Nella migliore delle ipotesi – dice – possiamo comprare 20 anni di quiete. Hezbollah non scomparirà». —
Nell’immagine: un cercapersone esploso