Di Enzo Di Mauro, il manifesto
Le sessantotto lettere famigliari di Alberto Giacometti scritte nell’arco di tempo che va dal 1916 al 1964 – e che adesso vanno a comporre, insieme ad alcune bellissime immagini (tra le quali la foto, celeberrima e iconica, scattata da Man Ray), il volume Il tempo passa troppo presto (Edizioni Casagrande), curato in maniera splendida e appassionata da Casimiro Di Crescenzo e stampato con il patrocinio della fondazione zurighese all’artista intitolata – furono scelte e accorpate dal fratello minore Bruno nel 1989. Esse rappresentano un assaggio prezioso e compatto delle millecinquecento missive che vedranno la luce prossimamente e in più volumi, sempre per i tipi dell’editore di Bellinzona. Ma intanto questo mucchietto di lettere – spesso cofirmate dal fratello Diego, che restò nei lunghi anni parigini sempre fisicamente accanto ad Alberto, aiutandolo nell’atelier al 46 di rue Hippolyte-Maindron, a Montparnasse, e facendogli da modello a partire addirittura dalla prima adolescenza – fanno in effetti corpo a sé, ed è il corpo inscindibile dei Giacometti, ovvero della madre Annetta (che morirà nel 1964, due anni prima del figlio ormai celebre e celebrato), del padre Giovanni (pittore di ottima fattura e amico fraterno di Segantini, scomparso nel 1933), della sorella Ottilia (artista tessile, morta nel 1937), del fratello Bruno, architetto, scomparso nel 2012.
Nel cuore di questa geometria di solidi affetti e di altrettanto solide passioni nulla rimane nascosto e anzi, semmai, si avverte sottotraccia l’ansia per i reciproci destini, il caldo interesse e il vivido incoraggiamento per le altrui passioni e attività. E poi, e sempre, fino all’ultimo, l’interesse per la vita quotidiana della comunità della Val Bregaglia, nel Cantone dei Grigioni, le parentele, le amicizie, le case, i luoghi (Stampa, Maloja, Capolago, Borgonovo, dove era nato nel 1901, Coira…), in una sorta di alchimia dei nomi che la distanza acuiva e rendeva struggente.
Composte in un italiano felicemente ibrido, a volte aulico, libresco e arcaico, altre sdato, disinvolto e sbadato, ricco di dialettismi e di termini tedeschi e francesi – l’effetto è irresistibile, quasi di sperimentalismo sorgivo, inconsapevole –, esse comunicano il minuto giornaliero, gli incontri (non solo gli artisti suoi colleghi, ma gli scrittori e i filosofi che poi avrebbero raccontato e analizzato l’opera, da Jean-Paul Sartre a Georges Bataille, da Jean Genet a Michel Leiris), le scoperte, le ansie, le speranze, i dubbi, le insofferenze (verso il movimento surrealista, ad esempio, dal quale verrà espulso nel 1935 dopo un grottesco processo in casa di Benjamin Peret), le idiosincrasie («Sì, sono in buoni termini con Aragon ma non lo vedo sovente perché non mi interessa tanto e i suoi discorsi li trovo superficiali, vuoti discretamente», risponde a domanda nel febbraio del 1936, e qui balza alla mente il memorabile, spietato ritratto pubblicato in morte di questo poeta e ora incluso nel volume Volti di un secolo, Einaudi, 2023) e le insistenze intorno al rapporto tra tempo e lavoro, una vera e propria ossessione che ovviamente non risparmia nemmeno la sfera onirica (così, ad esempio, in una lettera del 1946: «Dormo poco, mi abituo a ciò e poi tutta la notte sogno di continuare a disegnare o fare scultura. Continuo in sogno, notte ciò che faccio e il più curioso è che mi alzo sempre un po’ più avanzato che la sera e tutta la giornata, all’atelier, nel rientro, mangiando, con gente o solo penso ogni minuto a ciò che sto facendo senza requie e ogni disegno ogni scultura mi avvicina un po’ più di ciò che cerco e ora sono impaziente di andare all’atelier e di continuare»).
Siccome di tempo, appunto, non ce n’è a sufficienza, il sogno si struttura come linguaggio della realtà, come fattiva realizzazione di un’idea. Alla stessa maniera, il modello si precisa mediante il ricordo, la lontananza, l’assenza, la distanza. «Continuare a memoria», scrive nel 1953, «era per me continuare a fare il più possibile come vedevo o piuttosto il mezzo per rendermi conto di ciò che avevo visto e questo non poteva che durare fino adesso, bisognava arrivare a fare figura e teste che non potevano avere in ogni modo il contrario di ciò che farei dal modello».
Fin da subito, vale a dire fin dal tempo di poco successivo a quello in gran parte noioso e annoiato trascorso nel collegio di Schiers, Giacometti mostra una predilezione assoluta e innamorata che non può non suggerire una considerazione: se lui è stato per la scultura, nel Novecento, ciò che Paul Celan, Osip Mandel’štam e Dylan Thomas hanno significato per la poesia, sicuramente il suo Dante è stata l’arte egizia. La scoperta decisiva avviene nel corso del viaggio in Italia, a cavallo del biennio 1920-’21. Venezia, Padova, Assisi, Firenze, Napoli, Pompei, Paestum, R oma (quartiere Monteverde, ospite di parenti: da qui si muove ogni mattina per visitare la città, verso i musei o per frequentare la Scuola di via Ripetta) sono le tappe, e certo ammira Tintoretto, si commuove dinanzi a Giotto, definisce l’Innocenzo X di Velázquez «il più bel quadro di Roma» , sbalordisce mentre osserva le rovine e mentre gira per le strade per «vedere questo e poi quello»… E tuttavia, precisa, attraversando le stanze e i corridoi dei Musei Vaticani «la più bella statua che trovai non è né greca né romana e ancora meno del Rinascimento ma egiziana. Al Vaticano ce ne sono alcune di una bellezza incredibile, ma quasi nessuno le guarda e sono esposte in un modo bestiale, una vera vergogna per questi somari di direttori».
Si tratta di un punto decisivo che va a incistarsi perfettamente nella poetica di Giacometti, nella sua ricerca, nella sua pratica, in quel dato di essenzialità e di unicità che poi diventerà il cuore della sua grandezza. «Quelle sì che sono sculture», scrive da Firenze dopo aver visitato il museo egizio. E precisa meglio: «È tagliato veramente soltanto quello che è necessario e in tutta la figura non c’è un buco da entrare colla mano. Eppure si ha l’impressione del movimento della figura in un modo straordinario, c’è lì un busto da uomo di granito rosso o una pietra simile che disgraziatamente ha perduto il naso, ma è di una grandezza e forza tale come più tardi più non si trova. E hanno anche la tecnica più raffinata più scelta che si trova, specialmente nei rilievi, ce ne sono di magnifici, tori e vacche e vitellini che saltano capre che non vogliono saltare e tutti gli animali pieni di vita e carattere». Pare già di stare dentro l’autobiografia dell’«uomo che cammina». Il suo sguardo è qui a osservare.
E dentro quest’autobiografia in forma di lettere non può non passare il vento della storia di quel secolo ovvero la Grande Crisi del 1929, l’onda nera dei fascismi europei, la guerra di Spagna, la viva speranza del Fronte Popolare, l’emozione e l’entusiasmo per la marea di popolo e di bandiere rosse che inonda e sommerge i boulevard e le piazze di Parigi. Passa la cronaca dolente, nel marzo del 1948, dello «strano» funerale di Antonin Artaud, «una delle persone più straordinarie d’oggidì», lungo le strade di Ivry-sur-Seine, la banlieue dove viveva.
E infine i lutti famigliari, del padre, della sorella Ottilia, della madre: «E tutte le cose e tutti i giorni che ancora viviamo, invece di perdere di valore, ne hanno di più perché questa vita è esistita e nulla potrà mai essere perduto e viviamo tanto con i morti che amiamo, quanto con i vivi, lo credo». O altrove: «I nostri cari che sono morti ci restano vicini come nella vita e presenti e credo che più va e più è così e la morte cessa quasi di essere il contrario della vita, tutto quello che è stato un giorno resta per sempre e per noi niente non cessa mai!».
Nell’immagine: Alberto Giacometti, «Ritratto della madre dell’artista» (1947)