Alcune opinioni apparse recentemente su Naufraghi/e alimentano (ce lo auguriamo) il dibattito su finalità e modi d’azione del sistema educativo, che riprende oggi l’attività. Le nostre pagine digitali sono aperte ad ulteriori contributi, come quello che pubblichiamo oggi.
Almeno un merito andrà riconosciuto al partito liberale radicale svizzero: quello di aver riportato l’attenzione su alcuni aspetti dell’impostazione scolastica che forse davamo per scontati. La scuola è l’istituzione che più di altre caratterizza l’impegno democratico di un paese (il pensiero pedagogico e il pensiero politico sono complementari) e discuterne i principi non è mai una cattiva cosa. Ragionare, anche politicamente, sulla scuola è segno di una vitalità che giova a non credersi altezzosamente la culla della civiltà pedagogica.
Questa premessa mi sembra doverosa prima di ogni intervento critico sui “17 campi d’azione” indicati dai liberali radicali svizzeri all’inizio dell’estate. Se alcune loro affermazioni fanno sorridere (il richiamo alla “conoscenza dell’Illuminismo”), altre preoccupano e nella realtà ticinese appaiono – come giustamente osserva Adolfo Tomasini su Naufraghi.ch – contraddittorie. Sulle osservazioni di Tomasini, che condivido, non ritorno. Semmai aggiungo lo sconcerto per un testo che in quattro pagine raccoglie solo due riferimenti al termine “cultura” (nella forma aggettivale) e nessuna occorrenza per “sapere”. Il lettore ingenuo pensava che parlando di scuola questi lemmi dovessero costituire l’asse portante dello sviluppo riflessivo, a maggior ragione se si vuole, come dichiarato nel documento liberale “rimettere le cose a posto” (sic)!
Nel corso dei decenni, sotto l’impulso dell’OCSE (Organizzazione per la Collaborazione e lo Sviluppo Economico), che non è propriamente né un ente benefico né un istituto pedagogico, il pendolo educativo si è spostato dal principio della formazione umana (l’educazione come fulcro democratico di un umanesimo culturale) a quello di un sistema applicativo e funzionalistico. Ecco allora che il senso della scuola, anche quella dell’obbligo, non si coglie più nella ricerca di uno sviluppo culturale della persona, bensì nello sviluppo di competenze operative flessibili e finalizzate al mercato del lavoro. In Ticino il voto parlamentare per l’introduzione di un’ora di tedesco in prima media ne è stato un esempio lampante.
Che cosa debba intendersi per “politica educativa” nel documento liberale lo si evince in absentia. Anche perché non è certamente con un elenco di punti disparati (dalle agognate “competenze di base” al “più Svizzera in classe” al “tolleranza zero per i fondamentalisti”) che si disegna un progetto pedagogico. Vi si coglie, più che una visione d’assieme, un abbondante contrappunto specioso.
Ciò detto, mi pare che su alcune questioni sia però legittimo cogliere l’occasione per sviluppare un’argomentazione riflessiva e, se fosse ancora possibile, partecipata dagli insegnanti (proprio ciò di cui si è maggiormente avvertita l’assenza nella conduzione della scuola ticinese durante il dodicennio della gestione Bertoli-Berger). Personalmente coglierei almeno tre stimoli concettuali su cui vale la pena soffermarsi.
L’essenzialità formativa
Viviamo (soprattutto i giovani vivono) una condizione storica di disorientamento percettivo e valoriale. Nel tritacarne edonistico finiscono beni materiali e immateriali. Che cosa deve/può fare la scuola per affrontare un fenomeno che assume contorni socio-antropologici?
Il consumo digitale influenza il nostro modo di porci di fronte al sapere e alla processazione cognitiva. È un cambiamento epocale e non si tratta ovviamente di esprimere una valutazione morale, ma neppure di sottacerne gli effetti.
Dice Philippe Meirieu, uno dei maggiori pedagogisti del nostro tempo, in una intervista online: “Gli educatori devono comprendere il momento attuale, l’impatto del mondo digitale, le tecnologie come il cellulare, la globalizzazione… Più in particolare, penso che sia molto importante che ci preoccupiamo e che ci interessiamo di nuovo dei problemi dell’attenzione davanti ai numerosi stimoli esterni che gli studenti ricevono”.
A questa condizione di per sé straniante, la nostra scuola ha inteso rispondere con lo sbriciolamento analitico di un sapere competenziale, con la moltiplicazione delle forme didattiche e con la differenziazione. Siamo certi che sia questa la direzione giusta? Le intenzioni sono nobili, ma esiste il rischio di un caleidoscopio frastornante che nuoce in particolare agli allievi più fragili. Non varrebbe la pena – senza che questo suoni come un passo indietro – ritrovare delle essenzialità formative che, almeno sul piano dei contenuti, siano in grado di ricomporre un quadro di senso unitario?
Pedagogia e pedagogismo
La cultura pedagogica è essenziale per il bene dell’insegnante e dell’allievo; il pedagogismo invece (vale a dire la tendenza ad attuare in modo pedantesco un metodo educativo) riduce le possibilità di un confronto didattico produttivo e spesso confina l’insegnante nella prospettiva del mero tecnico dell’insegnamento. Detto che il contributo che le scienze dell’educazione danno alla comprensione dei processi di insegnamento-apprendimento è fondamentale, così come fondamentale è lo spirito critico che esse alimentano nell’esame dei sistemi educativi, infastidisce il fatto che negli ultimi anni esse siano chiamate in causa per legittimare (e puntualmente avallare) scelte contingenti di politica scolastica.
A difesa della disciplina pedagogica, in un intervento nel quale confuta le tesi liberali, scende in campo Manuele Bertoli (pure su Naufraghi.ch), rivendicandone la capacità di dar forma a una scuola nuova e buona. Con il piglio che lo contraddistingue, nell’ultima parte del suo testo l’ex ministro si riferisce al sistema scolastico suggerendo un paragone per lo meno corrivo: il pedagogista è come il medico specialista, l’insegnante come un infermiere; da chi preferireste essere curati? Da qui l’assunto neppure tanto implicito: l’insegnante-infermiere non discuta troppo di scuola, non spetta a lui. Si affidi al pedagogista!
All’ex ministro dell’educazione e della cultura varrebbe forse la pena ricordare due cose:
– La scuola non è un sistema ospedaliero! L’allievo non è un paziente e non s’avverte il bisogno di una medicalizzazione scolastica.
– La pedagogia è una scienza umana e come tale andrebbe usata particolare cautela quando, senza alcuna storicizzazione, si pretende di trasformarla in scienza applicativa.
Oggi se si dovesse indicare un’esigenza primaria affinché la scuola possa assolvere al mandato formativo, metterei in primo piano la necessità di avere educatori liberi e consapevoli (consapevoli di assumere un ruolo politico-pedagogico), nonché il bisogno emergente di persone di cultura che sappiano testimoniare in classe il senso dello studio, il piacere e il valore intrinseco della curiosità conoscitiva. Altro che di “infermieri” o, altrimenti detto, di osservanti esecutori didattici!
L’inclusione scolastica
Il Ticino ha una scuola inclusiva e di qualità. Può andarne fiero. Come tutti i beni preziosi (socialmente preziosi) questa scuola ha bisogno di attenzione. Anche di un’attenzione problematizzante, capace di collocare l’inclusione in una dimensione prospettica e non (auto)celebrativa. Due spunti riflessivi:
- La scuola inclusiva non può pesare quasi esclusivamente sulle spalle degli insegnanti, pena il fallimento dei principi di qualità, equità e sviluppo educativo che ne stanno alla base. Lo scarto fra ciò che si dichiara ufficialmente nel percorso didattico inclusivo (ed è avvertito come responsabilità professionale) e le risorse disponibili per realizzarlo è pernicioso e rischia di intaccare tanto la salute del docente quanto la qualità dell’insegnamento.
- Par di capire (si legga il documento “Inclusione e accessibilità nel sistema scolastico ticinese”, presentato a giugno dal nostro Dipartimento) che si intende ulteriormente potenziare l’approccio inclusivo. Un approccio che passa anche attraverso la definizione di profili individuali alla base di una personalizzazione del percorso di apprendimento. Pare eccessiva quella ossessione analitico-valutativa e di profilazione competenziale dell’allievo che inonda il pedagogismo ticinese. Solo per fare un esempio: oggi il ragazzino di 4-5 anni è valutato sulla base di sei competenze (– Sviluppo personale: motorio, percettivo, psico-corporeo e socio-affettivo. – Collaborazione. – Comunicazione verbale e non verbale. – Pensiero critico e riflessivo. – Pensiero creativo. – Strategie di apprendimento). Si vorrebbe quindi andare verso una scolarizzazione mirata per ciascun allievo? È giusto? È opportuno? In ogni caso occorrerà vegliare affinché la scuola inclusiva non venga confusa con una sorta di “servizio à la carte”.
Mi sembra degna di interesse un’affermazione di Ilario Lodi, responsabile di Pro Juventute per la Svizzera italiana, che interpellato a proposito del diffuso disagio del giovane afferma: “L’esasperata individualizzazione delle esperienze lo porta a costituirsi come soggetto incapace di stabilire delle relazioni, e dunque benessere, tra le esperienze che fa” (laRegione, 17.7.2024). In altre parole, mancano oggi occasioni che strutturino il vivere collettivo, che diano senso all’esperienza individuale.
Almeno la scuola, la classe, il gruppo-classe restino allora luoghi di esperienze conoscitive condivise (e di stimoli, difficoltà e traguardi). La scuola si impegni per adeguatamente supportare gli allievi più fragili (anzi, rafforzi il suo impegno), ma si sforzi anche di proporre vissuti intellettivi comunitari e strutturanti.