Gobbi, carceri e giustizia. I nodi vengono al pettine
Non solo la magistratura, ma anche il carcere necessita di grandi investimenti. La politica pare interessarsi al problema, ma nessuno parla di quali risorse per quali obiettivi
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Non solo la magistratura, ma anche il carcere necessita di grandi investimenti. La politica pare interessarsi al problema, ma nessuno parla di quali risorse per quali obiettivi
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Non solo la magistratura, ma anche il carcere necessita di grandi investimenti. La politica pare interessarsi al problema, ma nessuno parla di quali risorse per quali obiettivi
Siccome in Ticino mancano le strutture adeguate l’autorità cura i malati in carcere.
Per la cronaca, all’inizio di luglio il condannato in questione è morto suicida alla Stampa. Chissà se in una struttura appropriata sarebbe successo, in una struttura dove troverebbero posto i malati violenti. Quelli che oggi stanno alla CPC in caso di passaggio a un atto grave finiscono in carcere.
Così in Ticino ci ritroviamo con interi reparti del manicomio trasformati in galera, e piani di galera diventati manicomio. In mezzo, a prendere botte, infermieri e agenti di custodia.
Il penitenziario è pieno; il numero degli agenti di custodia svizzeri (così li vuole il ministro) è insufficiente; i concorsi per trovare personale non raggiungono gli obiettivi sperati. Il problema dell’incapacitazione penale si pone in tutto il suo splendore.
La politica, con i tempi geologici che la caratterizzano, sta cominciando a rendersi conto che non serve a nulla avere delle leggi se non si è poi in misura di applicarle.
Quando in polizia c’è il personal trainer ma la procura non può disporre di un segretario aggiunto perché “a manca i danéé”, anche i peones si rendono conto che c’è qualcosa che non quadra.
Con la fucilazione popolare della Cittadella della giustizia, e il cambio ai vertici della commissione Giustizia, i nodi della politica del consigliere di Stato Norman Gobbi stanno venendo al pettine. Ne esce un terzo potere dello Stato bistrattato, forse pure sbeffeggiato.
Norman Gobbi ama la polizia ed è un suo diritto. Forse è per questo che ha nominato un comandante a sua immagine e somiglianza. Uno che confonde il primo potere dello Stato con il terzo, e pare non aver capito che lui lavora per la magistratura e non per il Ministro. E quando, nel caso dell’ex Macello, il procuratore generale ha cercato di farglielo capire lui, il comandante ha avuto l’ardire di consegnare il materiale richiesto dopo averlo sigillato. Sigilli che sono poi stati fatti togliere dal Giudice dei provvedimenti coercitivi che ha fatto notare che gli argomenti avanzati dal comandante Cocchi sono pretestuosi. Ma non solo. Ares Bernasconi, il giudice, ha sottolineato che negli atti istruttori ci sono indizi di reato da approfondire; indizi che dovrebbero portare ad indagare municipali della città di Lugano, ufficiali della polizia cantonale e comunale. Va precisato che nessuno è stato condannato, ed è lecito immaginare che come da tradizione tutto finirà in un non luogo a procedere, ma questa incombenza spetta al procuratore generale, Andrea Pagani, e non al comandante della polizia.
In estrema sintesi non si capisce se Cocchi ha agito per ignoranza o, considerando che il Ticino è il Paese del rumore misterioso, per altri motivi.
Dicevamo che Gobbi ama la polizia, aggiungendo che questo è un suo diritto.
Il problema è che come direttore d’orchestra, il Consigliere di Stato pare aver trascurato il resto degli strumenti. Oggi magistratura e carcere sono pericolosamente in affanno. In oltre 13 anni, il pifferaio magico e la sua squadra, per adempiere al proprio mandato, hanno utilizzato strategie prevalentemente a senso unico e dal costo esorbitante. Uno scellerato spreco di denaro pubblico per risultati (prevedibili) che oggi sono lì da vedere: l’esatto contrario di quello che il cittadino potrebbe legittimamente aspettarsi. Ne emerge che le risorse per affrontare efficacemente il vasto e complesso problema dell’ordine sociale, con la strategia dettata dall’istinto del ministro Norman Gobbi, non ci sono. Quella prevalentemente repressiva è una strategia economicamente insostenibile in una democrazia. Certo! Ci fosse l’esercito, sarebbe un’altra cosa. Ma (ancora) non c’è.
Impossibile stabilire quanto costerà aggiustare il problema del palazzo di Giustizia con annessi e connessi. Tanto o poco – sia detto per inciso – dipenderà anche dalle mire della politica e dei suoi rappresentanti, mica tutti disinteressati.
È possibile immaginare in quale pantano sguazzi la politica carceraria cantonale considerando che, forse entro la fine dell’anno, alla Stampa si inaugurerà la sezione femminile. Aspettando (per lustri), i bambini delle condannate ticinesi han dovuto sorbirsi ore di treno per poter abbracciare la mamma. È improbabile che ai malati violenti sarà riservata miglior sorte. E neppure agli infermieri e agli agenti di custodia.
“Squadra che vince non si cambia”, ma cosa si fa con una squadra che in quasi tre lustri ha mostrato la propria inadeguatezza in tutto il suo splendore?
La risposta spetta al Consiglio di Stato.
Michel Venturelli è criminologo
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