I Rotanzi: dalla Lavizzara al Nuovo Mondo
Un nuovo studio sull’emigrazione ticinese dell’Ottocento verso l’Australia e la California si concentra su un ramo di una famiglia patrizia di Peccia che ha visto partire, in pochi anni, tutti i suoi uomini
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Un nuovo studio sull’emigrazione ticinese dell’Ottocento verso l’Australia e la California si concentra su un ramo di una famiglia patrizia di Peccia che ha visto partire, in pochi anni, tutti i suoi uomini
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Un nuovo studio sull’emigrazione ticinese dell’Ottocento verso l’Australia e la California si concentra su un ramo di una famiglia patrizia di Peccia che ha visto partire, in pochi anni, tutti i suoi uomini
Colpisce la vicinanza temporale della catastrofe che ha nuovamente colpito l’Alta Vallemaggia tra il 29 e il 30 giugno scorsi (dopo alluvioni, esondazioni, frane del 1834 e del 1868 e la valanga del 1951) e la presentazione ufficiale del volume, venerdì 16 agosto a Peccia, davanti a quasi 200 persone. Nessuno si sarebbe aspettato tanta gente, salita fino al Centro internazionale di Scultura (anch’esso confrontato con qualche difficoltà e a tratti a corto d’ossigeno) per il libro, ma certamente anche per prendere atto di persona del dramma e dar prova di vicinanza e solidarietà.
Ma perché una ricercatrice americana decide di occuparsi di un capitolo geograficamente così lontano dalla sua realtà? Non per legami diretti di provenienza, visto che l’opera l’ha dedicata ai suoi antenati “immigrati, che lasciarono i loro villaggi in Boemia e negli Appennini alla ricerca di una vita migliore”. Ma perché anche la famiglia da cui discende ha vissuto il fenomeno della migrazione, pressoché continentale nella Vecchia Europa. Lo spiega lei stessa: “Io sono discendente di immigrati. Il mio nonno italiano, con il suo inglese stentato, vendeva frutta dal suo campo per mandare i quattro figli al college, mentre i miei nonni boemi gestivano un alimentari di paese, senza mai dimenticare le loro origini ceche. La mia infanzia, caratterizzata dalle lingue e dalle differenze culturali dei nonni – Wiener Schnitzel e Knödel al sabato, ravioli ai funghi alla domenica – mi ha spinto a esplorare le lotte e le conquiste degli sradicati”.
Tre sottolineature importanti, dunque: la ricchezza ideale di un’esperienza migratoria in termini culturali e civili, che può rafforzare un’identità comune grazie al contributo di storie, etnìe, provenienze diverse in grado di riconoscersi in una nuova terra d’accoglienza, anche se da moltissimi vissuta (o meglio subita) a caro prezzo. L’aspetto sociale, l’ambizione e la lotta quotidiana per la dignità e la vita appunto, che avvicinano i migranti di allora a quelli dei nostri giorni. Ancora Geary: “Le lettere parlano anche delle analoghe esperienze dei molti migranti di oggi, dagli honduregni ai guatemaltechi che sfidano i pericolosi passaggi di frontiera nel deserto del sud-ovest degli Stati Uniti agli africani e ai siriani che si aggrappano a barche sovraccariche al largo dell’isola siciliana di Lampedusa. Questi immigrati moderni condividono con i fratelli Rotanzi un’immensa speranza e una profonda nostalgia di una casa che potrebbero aver perso per sempre” (pag. 22). Terza sottolineatura: in luoghi, momenti e realtà diverse, la storia ha conosciuto migliaia di fenomeni migratori da un punto cardinale all’altro.
“La storia del mondo” osserva Giorgio Cheda in Prefazione, “è una storia di emigrazione. L’uomo è l’unico animale che è stato in grado di adattarsi nei più diversi ambienti: dal deserto ai ghiacci polari, dalla foresta pluviale alle pendici dell’Himalaya. Gli Europei non solo sono emigrati in tutti i Continenti, ma hanno anche portato nelle Americhe milioni di schiavi africani. Conoscere le condizioni in cui nel passato si sono avvicendati gli spostamenti umani significa maturare una migliore consapevolezza riguardo alle convulsioni di quelli che si accavallano nel mondo scosso dalla globalizzazione, pericolosamente diviso fra nord e sud, fra sistemi democratici e no”. Aggiungendo, poco dopo, per contestualizzare le ondate migratorie europee – centrifughe e centripete nel contempo – altre, poche cifre: “Tra l’inizio dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, la popolazione europea aumentò da 188 a 458 milioni di abitanti. I contadini, che rappresentavano ancora i tre quarti della forza-lavoro, si ridussero a un quarto e fornirono il contingente notevolmente più numeroso di emigranti sia all’interno del Continente sia oltremare. L’apertura dei grandi spazi americani attirò, in un secolo, 50 milioni di Europei, soprattutto quando i piroscafi riuscirono a far loro attraversare l’Atlantico in pochi giorni e il treno a trasferirli nel Far West. Fra questi anche 400.000 Svizzeri distribuiti specialmente nella parte orientale degli Stati Uniti, mentre quasi tutti i Ticinesi preferirono la California”. Dove alcuni fecero anche fortuna: “Un migliaio (meno del 4% n. d. r.) dei 27.000 ticinesi emigrati in California, tra fine Ottocento e inizio Novecento, sono diventati proprietari di circa 1’800 km² di terra, superficie corrispondente ai quattro distretti di provenienza della maggior parte dei rancheros: Valle Maggia, Locarno, Leventina e Bellinzona, i due terzi del territorio cantonale”.
Ogni ondata migratoria ha la propria storia, i propri protagonisti, i propri esiti. Tutte, però, sono accomunate da una spinta condivisa, la ricerca di condizioni e prospettive di vita migliori, e da fortissimi risvolti emotivi legati alla partenza, al distacco, allo sradicamento, alla solitudine. Solitudine dovuta anche alla non conoscenza della lingua inglese, che spingeva i nostri ad unirsi, semmai, ad altre comunità italo parlanti fuggite dall’Italia settentrionale, allora in mani austriache (si legga il Prologo alle pp. 27-30).
Ragioni ideologiche estranee alla diaspora ticinese, che tuttavia condivideva quelle economiche. E, tela di fondo, “la povertà che li spinse a cercare una vita altrove, ma il loro cuore rimase nella loro casa sulle Alpi”.
Chi erano, dunque, i tre fratelli Rotanzi – Francesco, Virgilio e Alessandro, figli di primo letto di Luigi (1814-1901; docente e Giudice di Peccia) – le cui lettere ai familiari rimasti in Ticino (già edite nei volumi di Cheda) costituiscono l’ossatura del libro? L’albero genealogico della famiglia è opportunamente pubblicato a pagina 9: Luigi, già nel 1852 aveva perso l’unico fratello, Francesco, a Sacramento (California). Il suo primogenito Francesco (diventato Francis), nato nel 1839, un diploma di insegnante, partì a 16 anni per l’Australia, da dove non rientrò mai più e dove morì il 26 dicembre 1880. Lo seguì, ma con destinazione California, Virgilio, nel 1861, anch’egli a 16 anni: la sua vita oltremare si protrasse per 10 anni, la morte lo colse a 26. Alessandro, il più giovane, lo raggiunse nel 1862, ma morì già 2 anni più tardi: l’ultimogenito fu, insomma, anche il primo a morire: aveva appena 21 anni. Dei tre fratelli, solo Virgilio (battezzato/anglicizzato Joseph Jean Virgil Giacobbi), ebbe un figlio, pochi mesi prima di scomparire, dalla sedicenne Elisa, nata a Parigi, ma di origini corse. Quel ramo della famiglia Rotanzi si spense definitivamente nel 1948 con la sua morte e nessun discendente diretto rientrò più in Patria. Quanto al capostipite, rimasto in Lavizzara, di fede liberale, sopravvisse a 6 dei suoi 10 figli e – si legge nel necrologio – “dovette subire l’ostracismo” quando il Governo conservatore prese il potere in Ticino. Ma, sottolinea Geary, “la rovina della carriera di Luigi pesò poco rispetto allo strazio della sua vita familiare”.
Una lettera di Luigi Rotanzi al figlio Francesco, datata 5 giugno 1868
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