I sacri confini e la difesa della vita
Salvare le vite o difendere il territorio? Bisogna chiamare in campo i valori
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Salvare le vite o difendere il territorio? Bisogna chiamare in campo i valori
• – Redazione
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L’antologia 1916-64 ora edita da Casagrande fu pensata dal fratello minore di Alberto, Bruno, nel 1989: 68 fra le 1500 missive presto in libreria sempre per l’editore di Bellinzona. Struggente: la Val Bregaglia chiama la Storia
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• – Yurii Colombo
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• – Andrea Ghiringhelli
Salvare le vite o difendere il territorio? Bisogna chiamare in campo i valori
Come se dettasse la sua lapide per i posteri davanti al tribunale della storia, Matteo Salvini ha parlato al Paese in un video in cui declina le sue generalità, dichiarando di rischiare il carcere per aver difeso i confini dello Stato e rivendicando la sua azione: “L’articolo 52 della Costituzione stabilisce che la difesa della patria è sacro dovere del cittadino: mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani”. In realtà, più modestamente, il vicepresidente del Consiglio deve rispondere in processo a Palermo di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio perché quand’era ministro dell’Interno del governo Conte, nell’agosto 2019, bloccò lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti, tra cui 32 minori, partiti con imbarcazioni di fortuna dalla Libia e soccorsi nel canale di Sicilia dalla ong spagnola Open Arms. I pubblici ministeri hanno chiesto 6 anni di pena, perché “il ministro Salvini aveva l’obbligo di indicare un porto sicuro per lo sbarco dei migranti, e il diniego avvenne in intenzionale e consapevole spregio delle regole, con la lesione della libertà personale di 147 persone per nessuna apprezzabile ragione”.
Giorgia Meloni ha difeso Salvini, attaccando dal palazzo del governo i pubblici ministeri: “È incredibile. Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo”. Il caso diventa immediatamente esemplare, con l’esecutivo che invade il campo del giudiziario, secondo le peggiori abitudini della destra, i migranti trasformati in minaccia alla Nazione, e addirittura il dovere di difesa del suolo patrio contrapposto ai diritti dell’uomo.
Questa, naturalmente, è la questione centrale. Salvini ha scelto di difendersi dall’accusa trasformando la sua ideologia politica in atto di governo e l’azione dell’esecutivo in una missione in difesa della Nazione, come se fossimo davanti al rischio esistenziale di un’invasione nemica. Non per caso, senza mai dirlo esplicitamente, ha evocato uno scenario bellico per costruire artificialmente un clima psicologico di emergenza straordinaria, come quando suonavano le sirene della guerra. Perché è vero che la difesa della Patria secondo la Costituzione è un dovere “sacro” di ogni cittadino, ma l’articolo 52 lo colloca in un contesto di conflitto armato, tanto che subito dopo aver parlato di difesa stabilisce l’obbligo del servizio militare nelle forme previste dalla legge e ribadisce che l’ordinamento delle Forze armate si deve informare allo spirito democratico della Repubblica.
Con uno slittamento psicologico Salvini entra in quella cornice di emergenza bellica, si impadronisce dell’obbligo sancito nella Carta di difendere il Paese se un esercito ostile punta le armi alla frontiera, e lo trasporta nella sua personale battaglia politica contro i migranti. Come se le due minacce fossero equivalenti, i confini stessero per crollare insieme con la sovranità dello Stato, e la difesa del Paese richiedesse misure straordinarie, autorizzando il superamento della legge. L’anima della Nazione, in questa interpretazione, si sposta dalla capitale ai confini, che da perimetro storico, politico e simbolico dello Stato diventano il campo di battaglia designato contro l’orda barbarica che si avvicina. Siamo in presenza di un annuncio — e degli atti conseguenti — di una minaccia all’integrità stessa della Nazione, che attacca non solo la sicurezza dei cittadini ma la loro incolumità, nel pericolo manifesto di una contaminazione identitaria che smarrisca i fondamenti della comunità, nel buio della mondializzazione sbarcata a casa nostra.
Questo timor panico trasformato in politica si allarga nelle strade e nelle piazze del Paese, diventa senso comune dominante spacciato per buonsenso, produce i suoi effetti, primo fra tutti la connotazione “politica” del migrante che dopo essere stato clandestino, abusivo, alieno, concorrente, incarna a forza l’ultima maschera imposta da noi: quella del nemico. Siamo al punto zero, dove questo crescendo finisce nel “contatto” tra le due visioni del Paese, quella fantasmatica e quella reale. È il caso della Open Arms e del dibattimento di Palermo: “In questo processo — spiega uno dei Pubblici Ministeri — affrontiamo il tema dei diritti dell’uomo, della vita, della salute e della libertà personale, che prevalgono sul diritto a difendere i confini”. Assistiamo dunque ad una crisi tipica della fase che viviamo: la difficoltà a tenere insieme i diritti dell’uomo e la sovranità dello Stato, appena questa potestà sovrana si irrigidisce in ideologia e diventa un assoluto, restringendo l’universalità dei diritti della persona in prerogative riservate al cittadino, quindi discriminanti come un privilegio.
Inevitabilmente questa crisi chiama in causa la democrazia, giunta davanti alla sua ultima contraddizione: è interpellata contemporaneamente dalla domanda di sicurezza dei suoi cittadini e dall’appello di disperazione dei migranti, due richieste contraddittorie che pretendono politiche opposte, perché gli interessi sono divaricati. Come può la democrazia dichiararsi insensibile a una delle due istanze e rimanere innocente? Solo prevalendo sull’ideologia e richiamando in campo i suoi valori, che non limitano il concetto di “sacro” soltanto ai confini, come se non fossimo più capaci di sentire la sacralità inerme di una vita spoglia che chiede di continuare a vivere: perché abbiamo perduto il senso sacrilego della riduzione violenta dell’uomo a nuda vita, esposta al pregiudizio del potere sovrano.
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