Il conflitto ormai si è allargato, ma la guerra totale non conviene
Il rinvio dell’invasione di terra porta vantaggi a Gerusalemme e agli sciiti. Il negoziato non è impossibile, però le condizioni sono dure per entrambi
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Il rinvio dell’invasione di terra porta vantaggi a Gerusalemme e agli sciiti. Il negoziato non è impossibile, però le condizioni sono dure per entrambi
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Il rinvio dell’invasione di terra porta vantaggi a Gerusalemme e agli sciiti. Il negoziato non è impossibile, però le condizioni sono dure per entrambi
Quando due acerrimi nemici dicono la stessa cosa dev’essere vera. Specie se alle loro parole seguono fatti. Giovedì sono stati Hassan Nasrallah, Segretario Generale di Hezbollah, e Yoav Gallant, Ministro della Difesa israeliano a parlare. Per l’uno le esplosioni dei cercapersone e dei walkie-talkie sono «atti di guerra» di Israele; per l’altro, la guerra contro Hezbollah «entra in una nuova fase» che sposta a Nord il «centro di gravità» con relativa diversione di «forze, risorse ed energie». Il reciproco, fattuale, riconoscimento non esclude che le due parti si possano fermare ed avviare una «complessa fase negoziale». Ma le condizioni per arrivarci sono difficili. Hezbollah ha bisogno di incassare un successo per non perdere la faccia; Israele di eliminare la costante minaccia di Hezbollah agli abitanti al confine del Libano.
Le parole di Nasrallah e Gallant sono due dichiarazioni di guerra di una guerra già in corso che adesso fa un salto d’intensità. Per non smentirsi, due giorni fa, mentre Nasrallah era sugli schermi libanesi – da località sconosciuta per sua incolumità – i jet israeliani rompevano la barriera del suono nei cieli di Beirut, subito partivano i razzi di Hezbollah e Israele rispondeva con l’aviazione contro le postazioni missilistiche del Partito di Dio. Ieri, stesso copione: 140 razzi dal Libano contro Israele, letale attacco israeliano su Beirut che avrebbe distrutto un intero edificio che ospitava un comando e comandanti di Hezbollah.
La svolta allarga definitivamente il conflitto su scala regionale, cosa che gli Usa cercano di prevenire dall’inizio della crisi, col rischio di entrata in campo del convitato di pietra iraniano. A meno che dietro i rispettivi, pesanti, segnali, ci sia ancora una stretta finestra negoziale per una sospensione delle ostilità – temporanea intendiamoci. Non impossibile anche perché né Hezbollah né Israele sono pronti a farsi una guerra totale.Gerusalemme deve però ottenere che la fascia confinante col Libano ritorni ad essere abitabile; quindi, che Hezbollah ponga termine al tiro al bersaglio giornaliero di razzi contro la fascia Nord di Israele. Boccone duro da ingoiare per il Partito di Dio che ha appena subito i danni, le vittime e, soprattutto, l’umiliazione dell’attacco ai pager e ai walkie-talkie. Come rimanere con le mani in mano? Ma nel promettere vendetta, lo stesso Nasrallah ha esplicitamente lasciato impregiudicato “quando, come e dove”. Se ritiene che gli convenga, e se anche i registi di Teheran lo ritengono a loro conveniente, può anche rinviare.
l rinvio di uno scontro aperto, che può portare all’invasione di terra, può convenire perché Hezbollah ha bisogno di leccarsi le ferite e riparare i pesanti danni alla rete di comunicazioni e di logistica interna. Facendo esplodere cercapersone e walkie-talkie Israele ha colpito il sistema nervoso del Partito di Dio. Difficile capire quanto, ma da non sottovalutare. Dal canto suo, Israele pur sganciando sempre più forze da Gaza, non è pronto ad aprire il fronte Nord. Ci si prepara, ma ci vuole tempo per trasferire i mezzi e le truppe necessarie ad un’offensiva di terra. Entrambi hanno motivi egoistici per prendere tempo.
Ma cosa devono ottenere per darsi una tregua? Israele deve far rientrare gli sfollati a Nord. Hezbollah si è sempre detta aperta a una soluzione negoziale a condizione che cessino le ostilità a Gaza – il che farebbe felici anche americani, egiziani ecc. e, soprattutto, i palestinesi della Striscia. Prospettiva forse non del tutto morta.
Questo filo che condurrebbe a una de-escalation, sia pure a tempo determinato, è però molto esile. La percezione che Israele abbia varcato una linea rossa, come scriveva ieri su queste colonne Domenico Quirico, è molto forte. Ammesso che né Gerusalemme, né Hezbollah né Teheran vogliano entrare scatenare adesso una guerra regionale, si sono mosse dinamiche inerziali che non controllano e che possono sfuggire di mano. La capacità americana, e di altri – egiziani, qatarini, sauditi – di tenere a freno Israele e i suoi avversari si è molto ridotta e non solo per il clima e incognita elettorale di Washington. Netanyahu non si è peritato di dire a un interlocutore della Casa Bianca, Amos Hochstein: ringraziamo sempre gli Stati Uniti, ma quando ne va della nostra sicurezza decidiamo da soli. L’esplosione dei cercapersone è un buon esempio di un “incidente” che la diplomazia americana non avrebbe assolutamente voluto, e lo ha detto.
Israele non accetta più lo stato di guerricciola frontaliera continua che stava bene a Hezbollah e ai suoi danti causa iraniani. In risposta, l’attacco ai pager e walkie-talkie di Hamas è stato un atto di guerra, guerra iniziata da Hezbollah l’8 ottobre, non di terrorismo. Quindi guerra “legittima” anche se fuori dagli schemi del diritto internazionale codificati prima dell’era cibernetica.
Ma Netanyahu non prende in considerazione le conseguenze profonde di una guerra regionale sugli equilibri internazionali. Israele deve pensare alla propria sopravvivenza. Vero. Ma deve pensare anche agli alleati di sempre, Usa in primis ma occidentali in genere, e potenziali, specie del Golfo, che gli servono per la sopravvivenza e prosperità a lungo termine e che non vogliono la guerra. Se spera che arrivi un rieletto Donald Trump a togliergli le castagne (bollenti) dal fuoco, non sin faccia illusioni. Donald non fa regali a nessuno
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