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L'impressionante testimonianza della giornalista Anna Politkovskaja, uccisa per il suo lavoro nel 2006


Redazione
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• 12 Ottobre 2021 – Redazione
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Di Anna Politkovskaja, da Internazionale

Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me.

Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto.

È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999. Mi nascondevo dai soldati federali russi, ma grazie ad alcuni intermediari di fiducia riuscivo comunque a stabilire dei contatti segreti con le singole persone. In questo modo proteggevo i miei informatori.

Dopo l’inizio del piano di “cecenizzazione” di Putin (ingaggiare i ceceni “buoni” e fedeli al Cremlino per uccidere i ceceni “cattivi” ostili a Mosca), ho usato la stessa tecnica per entrare in contatto con i funzionari ceceni “buoni”. Molti di loro li conoscevo da tempo dato che, prima di diventare “buoni”, mi avevano ospitato a casa loro nei mesi più duri della guerra.

Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”. Non sto scherzando. Qualche tempo fa Vladislav Surkov, viceresponsabile dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che alcuni nemici si possono far ragionare, altri invece sono incorreggibili: con loro il dialogo è impossibile. La politica, secondo Surkov, dev’essere “ripulita” da questi personaggi. Ed è proprio quello che stanno facendo, non solo con me.

L’imboscata
Il 5 agosto del 2006 mi trovavo in mezzo a una folla di donne nella piccola piazza centrale di Kurchaloj, un villaggio ceceno grigio e polveroso. Portavo una sciarpa arrotolata sulla testa come fanno molte donne locali della mia età. La sciarpa non copriva completamente il capo ma non lo lasciava neanche scoperto. Era fondamentale non essere identificata, altrimenti mi sarebbe potuto succedere di tutto. Su un lato della piazza, appesa al gasdotto che attraversa Kurchaloj, c’era una tuta da uomo intrisa di sangue. La testa, invece, non c’era più. L’avevano portata via.

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio due guerriglieri ceceni sono caduti in un’imboscata tesa alla periferia di Kurchaloj da alcuni uomini fedeli all’alleato del Cremlino, Ramzan Kadyrov, il primo ministro ceceno. Adam Badaev è stato catturato mentre Hoj-Ahmed Dushaev, originario di Kurchaloj, è stato ucciso. Verso l’alba una ventina di Zhiguli piene di uomini armati hanno raggiunto il centro del villaggio dove si trova il commissariato di polizia. Portavano la testa di Dushaev. Due uomini l’hanno fissata al gasdotto al centro del villaggio e sotto hanno appeso i pantaloni macchiati di sangue. Poi hanno trascorso le due ore successive a fotografare la testa con i cellulari.

La testa mozzata è rimasta esposta per ventiquattr’ore. Alla fine gli uomini della milizia l’hanno portata via, lasciando i pantaloni appesi alla tubatura. Gli agenti dell’ufficio del procuratore generale intanto stavano esaminando la scena dell’imboscata. Gli abitanti del paese assicurano di aver sentito uno degli agenti chiedere a un subordinato: “Hanno finito di ricucire la testa?”. Il corpo di Dushaev, con la testa ricucita al collo, è stato riportato sul luogo dell’imboscata, e l’ufficio del procuratore generale ha avviato l’indagine seguendo le normali procedure investigative. Ho scritto un articolo per raccontare l’episodio, senza fare commenti ma fornendo una ricostruzione dei fatti. Sono tornata in Cecenia proprio quando in edicola usciva il giornale con il mio articolo.

In piazza le donne hanno cercato di nascondermi. Erano sicure che gli uomini di Kadyrov mi avrebbero sparato se avessero saputo che ero lì. Tutte mi hanno ricordato che il premier aveva giurato pubblicamente di uccidermi. Era successo durante una riunione dell’esecutivo: Kadyrov aveva dichiarato di averne abbastanza e aveva aggiunto che Anna Politkovskaja era una donna spacciata. Me lo hanno raccontato alcuni membri del governo. Perché tanto odio? Forse non gli piacevano i miei articoli? “Chi non è dei nostri è un nemico”. Lo ha detto Surkov, il principale sostenitore di Kadyrov nell’entourage di Putin.

“È talmente stupida che non conosce neanche il valore dei soldi. Le ho offerto del denaro ma non lo ha accettato”, ha detto Kadyrov a un mio vecchio conoscente, un ufficiale delle forze speciali della milizia. È “uno dei nostri”, e se ci avessero sorpresi a parlare di certo avrebbe passato dei guai. Al momento di salutarci, fuori era buio. L’ufficiale mi ha pregato di non uscire, perché aveva paura che mi uccidessero. “Non andare. Ramzan è molto arrabbiato con te”. Sono uscita lo stesso. Quella notte a Grozny avrei dovuto incontrare una persona di nascosto.

Si è offerto di farmi accompagnare con un’auto della milizia, ma l’idea mi sembrava ancora più rischiosa: sarei diventata un bersaglio per i guerriglieri. “Ma almeno nella casa dove stai andando sono armati?”, mi ha chiesto con aria preoccupata. Durante tutta la guerra sono stata tra due fuochi. Quando qualcuno minaccia di ucciderti i suoi nemici ti proteggono. Ma domani la minaccia verrà da qualcun altro. Perché mi dilungo su questa storia? Solo per spiegare che in Cecenia le persone sono preoccupate per me, e questo fatto mi commuove profondamente. Temono per la mia vita più di me.

Perché Kadyrov vuole uccidermi? Una volta l’ho intervistato e ho pubblicato le sue risposte senza cambiare una virgola, rispettando tutta la loro incredibile stupidità e ignoranza. Kadyrov era convinto che avrei riscritto completamente l’intervista, per farlo apparire più intelligente. In fondo oggi la maggior parte dei giornalisti, quelli che fanno parte “dei nostri”, si comporta così.

Basta questo per attirarsi una minaccia di morte? La risposta è semplice come la visione del mondo incoraggiata dal presidente russo Vladimir Putin. “Dobbiamo essere spietati con i nemici del reich”. “Chi non è con noi è contro di noi”. “Gli oppositori devono essere eliminati”.

“Perché ti sei fissata sulla storia della testa tagliata?”, mi ha chiesto a Mosca Vasilij Panchenkov, che dirige l’ufficio stampa delle truppe del ministero degli interni, pur essendo una persona per bene. “Non hai altro a cui pensare?”. Mi sono rivolta a lui per avere un commento su Kurchaloj per la Novaja Gazeta. “Lascia perdere, fai finta che non sia successo niente. Lo dico per il tuo bene!”.

Ma come posso dimenticare? Detesto la linea del Cremlino elaborata da Surkov, che divide le persone tra chi “è dalla nostra parte” e chi “non lo è” o addirittura “è dall’altra parte”. Se un giornalista è “dalla nostra parte” otterrà premi e rispetto, e forse gli proporranno perfino di diventare un deputato della duma, il parlamento russo. Ma se “non è dalla nostra parte”, sarà considerato un sostenitore delle democrazie europee e dei loro valori, diventando automaticamente un reietto. Questo è il destino di chiunque si opponga alla nostra “democrazia sovrana”, alla “tradizionale democrazia russa”.

Riferire i fatti
Non sono un vero animale politico. Non ho aderito a nessun partito perché lo considero un errore per un giornalista, almeno in Russia. E non ho mai sentito la necessità di difendere la duma, anche se ci sono stati anni in cui mi hanno chiesto di farlo. Quale crimine ho commesso per essere bollata come “una contro di noi”? Mi sono limitata a riferire i fatti di cui sono stata testimone. Ho scritto e, più raramente, ho parlato.

Pubblico pochi commenti, perché mi ricordano le opinioni imposte nella mia infanzia sovietica. Penso che i lettori sappiano interpretare da soli quello che leggono. Per questo scrivo soprattutto reportage, anche se a volte, lo ammetto, aggiungo qualche parere personale. Non sono un magistrato inquirente, sono solo una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo. I servizi trasmessi in tv e gli articoli pubblicati sulla maggior parte dei giornali sono quasi tutti di stampo ideologico. I cittadini sanno poco o niente di quello che accade in altre zone del paese e a volte perfino nella loro regione.

Il Cremlino ha reagito cercando di bloccare il mio lavoro: i suoi ideologi credono che sia il modo migliore per annullare l’effetto di quello che scrivo. Ma impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile. La mia vita è difficile, certo, ma è soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre gioie del mio lavoro – l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e online, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. La prima domanda che mi rivolgono è sempre la stessa: “Come e dove ha ottenuto queste informazioni?”.

Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. Per il Cremlino le loro storie non rispettano la linea ufficiale. L’unico posto dove possono raccontarle è la Novaja Gazeta.

Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2006 sul numero 665 di Internazionale. Era stato scritto per “Another sky”, un’antologia curata dall’associazione English Pen. Traduzione di Giuseppina Cavallo
Nell’immagine: fiori sul luogo dell’assassinio di Anna Politkovskaja






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