In Cisgiordania ora è assedio totale
West Bank in declino allarmante tra violenze dei coloni e distruzione delle infrastrutture. L’Onu: «Economia palestinese in ginocchio dopo undici mesi di guerra. Gaza è in rovina»
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West Bank in declino allarmante tra violenze dei coloni e distruzione delle infrastrutture. L’Onu: «Economia palestinese in ginocchio dopo undici mesi di guerra. Gaza è in rovina»
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West Bank in declino allarmante tra violenze dei coloni e distruzione delle infrastrutture. L’Onu: «Economia palestinese in ginocchio dopo undici mesi di guerra. Gaza è in rovina»
L’economia palestinese è in ginocchio dopo 11 mesi di offensiva militare israeliana a Gaza. È quanto affermano le Nazioni Unite in un lungo, dettagliato rapporto pubblicato pochi giorni fa. Pedro Manuel Moreno, vicesegretario dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, ha usato parole dure e allarmate: l’intera economia palestinese è in caduta libera, e quella di Gaza, in particolare, è “in rovina”. Il rapporto mette in luce la portata della devastazione economica che supera di molto l’impatto di tutte le offensive su Gaza precedenti, nel 2008, 2012, 2014 e 2021. A Gaza, si legge «i processi di produzione sono stati interrotti o decimati, le fonti di reddito sono scomparse, la povertà si è intensificata e ampliata, interi quartieri sono stati sradicati e le comunità sono distrutte», un quadro accompagnato da numeri, che non giungono nuovi. Già lo scorso gennaio l’Unctad aveva diffuso i dati sull’ultimo trimestre del 2023: nei primi novanta giorni dell’offensiva, il prodotto interno lordo di Gaza era già crollato dell’80%.
A oggi quasi tutte le attività commerciali di Gaza sono state danneggiate o distrutte e il 96% delle risorse agricole, tra cui fattorie, frutteti, sistemi di irrigazione, macchinari e strutture di stoccaggio, sono state “decimate”. Significa che la capacità di produzione e sussistenza è ormai paralizzata, in un territorio che già prima del 7 ottobre dipendeva dagli aiuti umanitari.
Non va meglio in Cisgiordania. Con l’attenzione mondiale giustamente focalizzata sull’offensiva a Gaza, un’altra crisi sta fermentando nella Cisgiordania occupata, una crisi che potrebbe avere gravi implicazioni per la stabilità dell’area intera.
Dice il rapporto UN: la Cisgiordania vive un «rapido e allarmante declino economico», le cause sono sotto gli occhi di tutti, nelle quotidiane cronache di violenza: l’espansione degli insediamenti, la confisca delle terre palestinesi e i conseguenti sfollamenti forzati di intere comunità, la demolizione delle infrastrutture necessarie alla sopravvivenza e l’aumento della violenza dei coloni hanno avuto un impatto senza precedenti sulle attività economiche.
A erodere la capacità dei palestinesi di lavorare convergono diversi fattori, l’impossibilità di movimento da un lato – basti pensare che il numero dei posti di blocco è aumentato da 550 a 700 in sei mesi – e la revoca dei permessi di lavoro.
Fino al 7 ottobre i palestinesi costituivano una spina dorsale dell’economia israeliana. Ogni giorno 150 mila palestinesi si spostavano dai territori occupati verso Israele, con l’inizio della guerra i permessi sono stati immediatamente sospesi. Secondo Unctad il 96% – cioè la quasi totalità – delle aziende in Cisgiordania ha ridotto la propria attività, la metà ha dovuto licenziare i dipendenti. In termini assoluti sono andati persi più di trecentomila posti di lavoro, facendo sì che in pochi mesi il tasso di disoccupazione della Cisgiordania occupata passasse dal 13% al più del 30%. Vuol dire che una persona su tre non lavora, che un capofamiglia su tre non sa più come provvedere alla sussistenza quotidiana.
Israele ha un’influenza finanziaria da decenni sull’Autorità Nazionale Palestinese. In base agli accordi di pace raggiunti negli anni ’90, infatti, il ministero delle finanze israeliano riscuote le tasse per conto dei palestinesi ed effettua trasferimenti mensili all’Autorità Palestinese. Ma dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, Israele ha smesso di effettuare i trasferimenti, trattenendo fondi pari al 70% del bilancio pubblico palestinese. Da ottobre 2023, le detrazioni fiscali e le ritenute fiscali da parte di Israele sono aumentate costantemente portando la somma di soldi trattenuti tra il 2019 e il 2024 a un totale di quasi un miliardo e mezzo di dollari, cioè l’8% del PIL palestinese. Tradotto nella vita quotidiana significa che l’AP non è in grado di pagare gli stipendi, pagare i debiti, né di mantenere i servizi pubblici essenziali: scuola, strade, ospedali. A gestire i rapporti finanziari tra Israele e Palestina, oggi, c’è il ministro dell’estrema destra sionista Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo Netanyahu.
Lo scorso maggio, mentre la Banca Mondiale parlava di un «rischio di un potenziale collasso sistemico» per l’economia della Cisgiordania, Smotrich ha annunciato che avrebbe dedotto 60 milioni di dollari dalle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Era la sua risposta politica (sarebbe meglio dire ritorsione) al riconoscimento da parte di Irlanda, Norvegia e Spagna dello Stato Palestinese e alla richiesta della Corte Internazionale di Giustizia dei mandati di arresto per Netanyahu e Gallant. La sua reazione era stata immediata: «I palestinesi stanno operando contro Israele con il terrorismo politico e quindi non dovremmo continuare a trasferire loro denaro… Se questo causa il crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese, la lasceremo crollare…».
Smotrich ha chiarito che un crollo dell’Autorità Palestinese faccia parte del suo progetto politico e d’altronde non ci sono voci nel governo israeliano che si oppongano a questa visione.
Per capire il senso profondo di queste decisioni, è fondamentale allargare il campo di osservazione. Smotrich, oltre a ricoprire il ruolo di ministro delle Finanze, ha anche una delega al ministero della Difesa che lo rende responsabile dell’amministrazione civile e degli insediamenti in Cisgiordania.
È grazie a questa delega che può promuovere la costruzione di nuovi insediamenti, il riconoscimento di quelli vecchi, in sintesi: aumentare il controllo israeliano sulla vita dei palestinesi. Tutto coerente con le posizioni del suo partito, ovvero che non esista la possibilità della costituzione di uno Stato palestinese e che la migliore strategia per impedirlo è ampliare le colonie.
Recentemente ha annunciato che, in virtù delle sue deleghe, avrebbe concesso permessi per istituire un nuovo insediamento per ogni Paese che avesse riconosciuto la Palestina come Stato. Ecco, dunque, che il crollo dell’Autorità Palestinese è coerente con la politica di governo, con l’ampliamento della sovranità ebraica, è un altro passo verso la realizzazione della visione politica, religiosa, nazionalista dei partiti che hanno in mano ministeri cruciali e in estrema sintesi la sopravvivenza politica di Netanyahu.
Lo scorso 28 giugno, Smotrich ha annunciato che avrebbe finalmente scongelato tre mesi di entrate fiscali e avrebbe esteso una deroga che consente la cooperazione tra banche israeliane e palestinesi.
Una mossa che è parsa una mossa a sorpresa, e che però aveva una doppia faccia.
Questo avverrà, ha detto, in cambio dell’approvazione retroattiva di cinque avamposti in Cisgiordania, illegali anche per la legge israeliana, ma già costruiti e in attesa di capire se in procinto di legalizzazione o smantellamento.
Come a dire: vi diamo i soldi che vi spettano se non ostacolate l’espansione degli insediamenti.
O, ancora meglio: vi diamo i soldi che vi spettano, se ve ne andate senza fare troppo rumore. La realizzazione ultima del “Piano decisivo” che scrisse nel 2017, ormai sette anni fa, in cui chiariva che Israele avrebbe dovuto fare di tutto per «facilitare l’emigrazione volontaria» dei palestinesi.
Sequestrare il loro denaro, per esempio.
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