“Nazioni Unite, palude antisemita”, accusava ieri Netanyahu dalla tribuna del Palazzo di vetro di New York, comprensibilmente irritando la maggioranza dei delegati, e raccogliendo altre diffuse dosi di isolamento internazionale per il suo paese. Ma poco importava al premier israeliano. Anche perché in quel momento, nel pomeriggio di ieri, il suo pensiero era altrove. Era esattamente a Dahieh, periferia meridionale di Beirut, roccaforte di Hezbollah, quartiere denso di palazzi, migliaia di civili sempre più esposti ai bombardamenti israeliani, ormai fragile scudo in cui vagano, si nascondono, si riuniscono negli appositi bunker i leader sciiti del “Partito di Dio”.
“Bibi”, come da sempre lo chiamano in patria amici e avversari, sa che in quei minuti il suo apparato militare sta tentando il colpaccio, l’iniziativa più spettacolare, dimostrativamente e politicamente. E infatti, terminato il suo discorso, si precipita dietro le quinte. Dove gli confermano che la bomba costruita appositamente da Tsahal per penetrare e sfondare anche i rifugi blindati del nemico ha appena centrato l’obiettivo: cioè il bunker dove, con altri comandanti di primissimo piano, si trova anche Hassan Nasrallah, da tre decenni irriducibile nemico libanese dello Stato ebraico, che in pubblico e per motivi di sicurezza, non pronuncia più discorsi da circa vent’anni. Poco conta, agli occhi degli attaccanti e non solo, la sorte di decine o centinaia di vittime civili “collaterali”, finite sotto le macerie di quattro palazzoni, che l’impatto del super-ordigno israeliano ha praticamente sbriciolato.
“Melek Israel”, il re politico di Israele, come lo definiscono i suoi fan più focosi, può gioire. Perché anche se non arriva subito la conferma della morte di Nasrallah (data ufficialmente solo stamane dal suo esercito), Israele ha dimostrato o confermato la sua efficienza bellica, dopo i massicci e spesso indiscriminati bombardamenti (circa 500 morti fra la popolazione), i dispositivi missilistici di Hezbollah distrutti a centinaia, i cerca-persona con esplosivo incorporato che hanno già eliminato molti esponenti del partito di Allah , e gettato nel caos il suo sistema di comunicazione interno.
Guerra classica più guerra cibernetica. Nuova frontiera dei conflitti armati. E, nel caso specifico, rivincita e riabilitazione dei servizi israeliani dopo il terribile, inimmaginabile flop di undici mesi fa alla frontiera (presunta sigillata) con la Gaza di Hamas.
Bersaglio principale e colpito, dunque: Nasrallah, il figlio del fruttivendolo che poté studiare a Qom e in altre città dell’Iran deputate all’insegnamento dei precetti islamici, scelto da Khomeini e dai suoi successori per guidare l’alleato Hezbollah dopo l’uccisione del suo primo leader per mano naturalmente sempre degli israeliani: ucciso in un blitz mirato da parte di elicotteri Apache con la stella di Davide. In realtà, Hassan Nasrallah è stato un capo dal doppio volto, militare e politico: la capacità di infoltire, addestrare, organizzare e armare – sempre via Teheran – le sue milizie, che riuscirono a resistere nella prima parte degli Anni Duemila a invasioni e incursioni di Israele (dovette contare l’uccisione di molti suoi militari); d’altra parte la sua capacità tattico-politica, fatta di missili , non proprio devastanti, lanciati su cittadine e kibbutzim del nord di Israele, ma sempre con l’accortezza di evitare di trasformare il tutto in uno scontro totale con l’esercito più potente della regione. Comunque avanguardia – questo “Hezbollah versione Nasrallah” – del “Fronte della resistenza sciita”, organizzato e alimentato dall’Iran. In un equilibrio instabile lungo la cosiddetta “linea blu”, teoricamente monitorata e controllata dai contingenti dei caschi blu dell’ONU, presenza simbolica più che operativa nel tenere a bada (peace keeping) i due belligeranti.
Tutto è cambiato quasi un anno fa, con il sette ottobre. Il feroce attacco terroristico di Hamas contro i civili israeliani nel Negev: la strage (1.200 morti soprattutto civili), la deportazione nei tunnel della Striscia palestinese di oltre trecento ostaggi israeliani (in gran parte deceduti), e la successiva terrificante, spropositata , disumana ritorsione israeliana, punizione collettiva, con i suoi oltre quarantamila morti di civili palestinesi, molti dei quali bambini, la distruzione totale di quasi metà delle abitazioni di Gaza, gli ospedali rasi al suolo, la fame come arma bellica, centinaia di miglia di profughi disperatamente erranti in meno di 300 km quadrati, l’inferno sulla terra. Hezbollah non poteva stare con le mani in mano di fronte alla carneficina dei “fratelli” del Sud. Quindi, intensificazione dei bombardamenti sul Nord di Israele (in realtà, poche vittime), e fuga dalle loro case di circa 50.000 israeliani. Un ottimo e legittimo motivo per Netanyahu, ormai da tempo convinto che andasse comunque aperto anche il “Fronte Nord”. Dunque, inevitabile allargamento del conflitto – lo sviluppo a parole più temuto dalle cancellerie occidentali – che nemmeno gli Stati Uniti, con una leadership indebolita al massimo (Biden), una diplomazia affannata e inascoltata, e una corsa presidenziale americana in atto, potevano fermare.
E’ alle armi, del resto, che Netanyahu ormai affida la sua sopravvivenza politica, anche quella giudiziaria (la già formalizzata accusa di corruzione e abuso di potere), la convinzione di salvare l’esistenza stessa di Israele, e lo spettacolare recupero nei sondaggi, che per la prima volta in settimana lo hanno visto primeggiare. Insieme ai suoi alleati nazionalisti, messianici iper-religiosI, esponenti del sionismo annessionista, rappresentanti dei coloni da loro armati e autori di razzie contro villaggi e coltivazioni palestinesi nella Cisgiordania occupata. Un recupero nei sondaggi impensabile fino a pochi mesi fa. E che dice molto, o tutto, dello stato d’animo della popolazione israeliana, che si mobilita contro Netanyahu per il mancato salvataggio degli ultimi ostaggi, ma che poi in maggioranza ne condivide la “guerra per la sopravvivenza” di Israele. Che, non va dimenticato, ha dalle parti di Dimona una trentina di missili a testata nucleare. Potenza atomica che un esponente dell’attuale governo ha già minacciosamente evocato.
E ora? Basterà a Netanyahu l’eliminazione del capo di Hezbollah, o vorrà portare militarmente ‘a termine’ il lavoro? Cioè far entrare i suoi reparti corazzati nel Sud del Libano, ingaggiare il combattimento a terra con le milizie sciite? Le esperienze del passato ammoniscono. E’ nel Paese dei cedri che in passato (primo ministro Olmert) Tsahal non solo contò il maggior numero di morti su un campo di in battaglia, ma venne anche costretto all’unico, obbligato e umiliante ritiro della sua storia. Ma un Netanyahu confortato dai successi, deciso a cavalcare il momento favorevole, a capo di un esercito che ha vistosamente ammodernato e affinato la sua condotta offensiva, potrebbe essere tentato da una replica: con l’obiettivo di realizzare nella parte più meridionale del Libano una larga fascia di sicurezza, spingendo l’Hezbollah decapitato della sua leadership al di là del fiume Litani (come del resto prevedevano gli accordi di anni fa) , garantendosi così una trentina di chilometri privi di santuari nemici. Sarebbe per di più un ulteriore monito all’immobile Iran, che rimane il bersaglio vero, e più importante, di Israele. Si vedrà quanto efficace sarebbe un eventuale intervento terrestre, “boots on the ground”, e se non destinato, secondo diversi esperti, a trasformarsi col tempo in boomerang.
La riuscita (finora) offensiva contro il Partito di Allah, considerato fino a ieri il più combattivo degli alleati di Teheran, potrebbe anche cambiare lo schema politico libanese. Un mosaico di etnie, religioni, partiti in un paese spossato dalla crisi economica che dura da anni, e nuovamente teatro di una guerra che gran parte dei suoi abitanti considera “non sua” ma di nuovo imposta da corpi estranei e da “potenze” straniere. Presunta ex ‘Svizzera del Medio Oriente’, oggi nazione fragilizzata. Apparentemente sull’orlo di una implosione. In passato le varie componenti del mosaico libanese si affrontarono in armi, cristiani (appoggiati da Israele) contro musulmani islamisti e palestinesi rifugiati; oggi, tale è la stanchezza e la debolezza di tutte le sue componenti che la minacciosa replica di una sanguinosa guerra civile come quella degli Anni Settanta non si intravvede. Si percepisce tuttavia che la scontro fra Hezbollah e Israele potrebbe comunque disarticolare ancor più la struttura e la tenuta politica e sociale del paese. Che potrebbe surrettiziamente provocarne il temuto collasso. E nuovo caos. C’è da vedere a favore di chi.
Nell’immagine: Netanyahu durante il suo discorso al Palazzo di vetro di New York