Dalla nostra corrispondente da Tel Aviv
Per l’anniversario dei trent’anni dalla morte del professor Yeshayahu Leibowitz (1903-1994) nelle scorse settimane la cinemateca di Tel Aviv, in collaborazione con il movimento della Sinistra di Fede, ha riproposto il documentario in tre parti Leibowitz: Faith Country and Man diretto da Uri Rosenwaks e Rinat Klein.
Nato a Riga in Lettonia, Leibowitz ha conseguito gli studi universitari a Berlino e a Basilea, per poi trasferirsi definitivamente in Palestina nel 1935. Ebreo osservante dei precetti, scienziato e filosofo, potrebbe essere definito un ebreo sionista religioso talvolta conservatore dogmatico, altre illuminato innovatore. Grazie al suo pensiero ricco e originale, non esente da paradossi e contraddizioni, e alla sua conoscenza approfondita dell’ebraismo (è stato tra le altre cose redattore dell’Enciclopedia Ebraica) Leibowitz ha influenzato generazioni di laici e religiosi che riceveva generosamente a casa propria, coraggiosamente aperto al confronto e alla sfida del consenso. Come si evince dalla sua ricchissima produzione fatta di appunti, articoli, saggi, libri, interviste conferenze e carteggi, avrebbe probabilmente auspicato uno stato governato dalla Halachà, il corpus di norme di diritto ebraico ma, vedendo la piega assunta dai partiti religiosi, finì per divenire sostenitore di una separazione assoluta del potere religioso da quello politico. Proprio per la sua critica politica, quasi sempre sdoganata con lingua tagliente, al limite del volgare, l’eclettico professore non ha mai smesso di essere oggetto di accesi dibattiti. Come rimarca il documentario, a partire dalla vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni del 1967, Leibowitz non ha smesso di esternare la propia preoccupazione per il destino etico del popolo ebraico, invitando il governo a restituire i territori occupati e legittimando il rifiuto dei soldati a prestarvi servizio. Quando nel 1987 il presidente della corte suprema Meir Landau legalizzò l’uso della tortura con i prigionieri palestinesi “ nell’interesse dello stato”, Leibowitz coniò l’espressione Judeo-nazi alludendo alla progressiva disumanizzazione della società ebraico israeliana a causa dell’occupazione. Formatosi nella Germania tra le due guerre, Leibowitz era stato testimone diretto dell’ascesa del nazionalismo tedesco e, avendone compreso i rischi, non aveva smesso di mettere in guardia il suo popolo affermando già allora che “solo la mancanza di veri e propri campi di concentramento ci distingue ancora dai nazisti”. Benchè mosso da un amore sconfinato per Israele, le sue provocazioni lo hanno reso sgradito a molti, tra cui il primo ministro Yitzhak Rabin, la cui dichiarata ostilità nel 1993 condusse Leibowitz a declinare a malincuore il prestigioso premio Israèl.
In questo disgraziato 2024, in cui il nazionalismo estremo misto al conservatorismo religioso permea ogni angolo di Israele, la veemenza profetica del professor Yeshayahu Leibowitz risuona con una rinnovata e inquietante autorità, mentre a denunciare le pericolose similitudini tra la nazione tedesca e quella ebraica ci pensa ora Deborah Feldman, autrice del celebre memoir Unorthodox, ispiratore dell’omonima serie Netflix.
In una lunga intervista per il quotidiano Haaretz, pubblicata lo scorso fine settimana, Feldman, oggi intellettuale di spicco della scena berlinese, accusa la Germania di aver originato il fascismo ebraico. Il senso colpa tedesco per la tragedia della Shoah si traduce nella legittimazione assoluta e acritica del governo israeliano, anche se si tratta di lasciare gli ostaggi a morire, sterminare 40.000 palestinesi o perseguitare intellettuali ebrei e israeliani come lei. Secondo la scrittrice anche la via per l’islamofobia passa per la Shoah, ma non ci vorrà molto perché i privilegi di cui godono ora gli ebrei in Germania vengano annullati dall’ascesa dell’estrema destra che già si affaccia in Germania come in Israele. Feldman si afferma convinta che l’ideologia nazista abbia contaminato il sionismo, e di conseguenza Israele, che deve urgentemente liberarsi dall’odio che la permea.
Anche se sembra dimenticare un po’ troppo il contributo di alcune categorie ebraiche all’ascesa del fascismo israeliano, la denuncia va presa in seria considerazione e la sua esperienza rieccheggia quella di intellettuali ebrei come Masha Gessen e Yuval Abraham che nei mesi scorsi hanno ricevuto lo stesso trattamento ostile da parte delle istituzioni tedesche che li hanno accusati di antisemitismo per la loro critica al governo israeliano
Deborah Feldman proviene dal back ground ebraico osservante del chassidismo Satmar newyorkese e anche lei, come il prof. Leibowitz, parla con consapevolezza e amore verso Israele, tuttavia la rabbia e l’esuberanza rendono le sue parole aggressive con il risultato che il pubblico la denigra e le respinge. Forse se si può trarre una lezione dalla loro esperienza è che ci deve essere un modo maggiormente pacato ed empatico di porsi, che non faccia sentire minacciati gli interlocutori mainstream, ebrei e non, e che l’utilizzo di paragoni presi a prestito dal gergo della Shoah, se anche appropriati, rischia di indebolire moniti etici che invece richiedono di venir recepiti con estrema urgenza.
Nell’immagine: il professor Yeshayahu Leibowitz (1903-1994)