“Ennesima giornata di proteste in Kenya”, “Kenya nel caos”, “Kenya, altre proteste e violenze in città”. Ma cosa sta succedendo realmente in Kenya? C’è da preoccuparsi? Dipende. Se poniamo questa domanda a Simone Ceciliani, operatore sociale a Nairobi da oltre 10 anni, risponde che non c’è periodo migliore.
«È difficile decifrare il tutto. Ci sono in ballo tante dinamiche e sfaccettature. Politiche. Economiche. Sociali. L’unica cosa certa è che si tratta di un movimento trasversale. E questo è del tutto nuovo per il Paese». Trasversale sotto ogni punto di vista. La protesta, iniziata online e solo successivamente scesa in piazza, ha agitato tutto il Paese, non solo la capitale. Le strade di Kisumu, Mombasa ed Eldoret sono state invase tanto quanto quelle di Nairobi. A protestare sono i giovanissimi. A guidarli malcontento, frustrazione e delusione. Nessun partito politico, slogan o rappresentanza etnica.
Ma facciamo un passo indietro. Le proteste antigovernative in Kenya sono iniziate il 18 giugno, quando la nuova legge finanziaria era in discussione in parlamento. Il 25 dello stesso mese, con la sua approvazione, la situazione è degenerata. «Era l’ennesima tassazione punitiva per le fasce sociali più fragili. Si parlava di tasse sui beni primari quali pane, latte e assorbenti. Oltre a tagli per il supporto alla popolazione più debole come quelli alla mensa scolastica», spiega Simone, concludendo: «Tuttavia, la legge finanziaria è stata solamente il trigger». Il provvedimento si è rivelato infatti non essere la sola ragione delle proteste. Tant’è vero che la sua cancellazione non ha portato tregua nel Paese. E i giovani della cosiddetta Gen Z hanno continuato a manifestare.
«Il problema non era tanto la tassa in sé, ma piuttosto l’uso, da parte del governo, di quei soldi. I giovani sono stanchi di vedere i politici girare con macchine nuove e poi andare all’ospedale e non trovare a disposizione i farmaci, nemmeno quelli più basilari. E la nuova tassa era emblematica di ciò. Di fronte a tagli e imposizioni fiscali pesanti, erano previsti benefit per la classe politica», prosegue Simone. A guidare le proteste sono laureati, giovani istruiti e qualificati. Una generazione estremamente consapevole, nonché tra le fasce sociali più deprivate in Kenya.
Nel Paese ci sono state politiche di supporto alla scolarizzazione della popolazione. La grande maggioranza dei bambini va a scuola. E moltissimi giovani sono stati sostenuti con borse di studio e finanziamenti governativi anche a frequentare la scuola media superiore e l’università. Peccato che terminato il percorso di studi non riescano ad entrare nel mondo del lavoro. La maggior parte di loro è disoccupata o comunque non ricopre posizioni correlate al percorso di studi fatto. Le qualifiche non contano niente e la ricchezza non è mai relazionata al lavoro onesto. Come ce lo si spiega, altrimenti, che una popolazione con un alto tasso di scolarizzazione languisca in povertà mentre un piccolo gruppo di élite controlli più del 90% della loro economia?
«I giovani contestano la struttura socio-economica del Paese. Sanno che il Kenya ha un problema con i sistemi post coloniali – o, neo coloniali – e le strutture che hanno operato nel Paese negli ultimi 61 anni». I manifestanti accusano Ruto di essere il burattino del Fondo monetario internazionale che ha imposto le radicali misure di austerity, privatizzazione e pressione fiscale in cambio di un nuovo prestito. Ed è così che il ritiro della legge finanziaria, lo scioglimento del governo (licenziati 22 ministri su 23) e le altre concessioni fatte dal presidente non sono sufficienti. La Gen Z punta al vertice e pretende che il presidente abbandoni il potere. “Ruto must go” è lo slogan più scandito dai dimostranti nelle manifestazioni.
Nemmeno i metodi più brutali sono serviti a dissuaderli. In concomitanza con l’inizio delle proteste, oltre all’arresto preventivo di alcuni influencer e punti di riferimento dei giovani con l’accusa di reati di opinione, c’è stata un’ondata preoccupante di casi di sparizioni e rapimenti misteriosi. Samson, 27enne keniano attivo politicamente, ci spiega che alcuni di loro sono stati rilasciati dopo qualche giorno: «Erano confusi. Hanno dichiarato di essere stati trascinati fuori città, picchiati e torturati. Una grave violazione dei diritti umani che, senza dubbio, solleva serie preoccupazioni sullo stato di diritto e sulla sicurezza nel nostro Paese ma che non è bastata a fermarci».
Samson continua rimarcando come la reazione del governo alla protesta, inizialmente pacifica, sia diventata sempre più repressiva. E come l’uso dei gas lacrimogeni e dei proiettili sia solo la parte più visibile di questa repressione. Samson: «Quelli che fanno casino nelle manifestazioni non sono parte della Gen z. O sono i soliti violenti che vengono solo per fare confusione e sfogare la rabbia. O è politica. In entrambi i casi non siamo noi». E precisa: «Il governo approfitta della frustrazione delle persone. Arruola i giovani vulnerabili degli slum per prendere parte alle manifestazioni e fare casino. Gli fornisce mazze e tutto l’occorrente. Promette soldi».
Che questa protesta sia nuova, rimarchevole e tutt’altro che acefala è evidente. L’essere partita dal centro, piuttosto che dagli slum ne è un segnale. In Kenya, qualcosa di nuovo sta iniziando e il sistema comincia a scricchiolare. Ed è proprio qui il punto.
«A chi mi chiede come stiamo in Kenya e se sono preoccupato, rispondo (e mi domando)… ma come state voi, noi, in Italia, in Svizzera? Dove la cultura di popolo e di solidarietà è quasi scomparsa, dove l’individualismo trionfa, dove i diritti degli ultimi non sono più una priorità, dove fra i giovani regna ormai una calma piatta. Guardiamo questi giovani keniani. Potrebbero essere d’ispirazione anche per tutti noi», dice Simone Ceciliani.
Nell’immagine: la protesta della Gen Z