Di Bill Emmott, La Stampa
Si sono levati sospiri di sollievo in tutto il mondo al termine del dibattito in televisione tra Kamala Harris e Donald Trump, non soltanto dalle sedi del Partito democratico, ma anche dai governi dei molti alleati e amici dell’America. Il sollievo è stato provato per ciò che non è accaduto: la vicepresidente Harris non è implosa, non si è mostrata debole e inadeguata, ha attestato di non essere una radicale pericolosa e non si è fatta calpestare dal prepotente Trump.
La domanda a cui resta da rispondere è se, avendo evitato in questo modo il disastro, i suoi risultati positivi nel dibattito e le qualità positive emerse saranno sufficienti a convincere gli elettori americani il 5 novembre. Non si può dissentire dal fatto che Harris ha “vinto” il dibattito, in quanto è uscita da quei 90 minuti molto più forte e più sicura di sé rispetto a Trump. Che quest’ultimo sia andato a parlare di persona ai media, nella cosiddetta “spin room”, al termine del confronto televisivo, indica che Trump ha capito di essere andato male e i giornalisti presenti avranno compreso il significato della sua decisione.
Ciò che nessuno può sapere è quale impatto avrà questo evento sugli elettori. Da una parte, il dibattito darà alla campagna di Harris videoclip in abbondanza da utilizzare nei prossimi 54 giorni che restano per cercare di rafforzare i suoi messaggi. Inoltre, alcuni dei commenti più strambi di Trump durante il dibattito – tra cui le sue dichiarazioni sugli immigrati che mangiano gli animali da compagnia e la sua confessione che a distanza di nove anni da quando ha promesso di abolire il regime di assistenza sanitaria di Barack Obama non ha ancora un proprio piano con cui sostituirlo – convinceranno un numero maggiore di elettori repubblicani a non andare al seggio o a votare Harris.
Dall’altra parte, il pregiudizio contro le donne politiche e la radicata polarizzazione politica dell’America potrebbero rendere gli elettori ancora restii a cambiare idea. In aggiunta, anche se il dibattito è stato seguito da un gran numero di telespettatori, i media americani ora sono a tal punto frammentati e polarizzati politicamente che i confronti di questo tipo potrebbero non avere il grande impatto nazionale che avevano una volta.
Per coloro che stanno guardando o leggendo del dibattito, quasi sicuramente Harris ha fatto abbastanza durante l’incontro per dissipare i dubbi principali su di lei, riguardo la sua tenacia sotto attacco e le sue qualità di leader. Malgrado la frammentazione mediatica, la mia impressione è che, se si votasse domani, vincerebbe lei. Ma la strada è ancora molto lunga.
La linea d’attacco più significativa di Harris è stata quando ha detto che nei suoi viaggi da vicepresidente ha scoperto che i leader internazionali “ridono” di Trump. Questo mette in luce bene la sua esperienza all’estero e al contempo ritorce contro Trump una delle battute preferite da quest’ultimo, secondo cui all’estero si ride dell’America e, in particolare, si ride del presidente Biden.
In realtà, naturalmente, né le affermazioni dell’una né quelle dell’altro possono essere ritenute veritiere. I governi stranieri sanno che non è mai nel loro interesse ridere manifestamente degli altri capi di governo, soprattutto di uno potente come il presidente degli Stati Uniti, e non riderebbero apertamente nemmeno di un uomo che si candida alla rielezione.
Eppure, in effetti nella sua dichiarazione Harris ha saputo cogliere qualcosa di vero, sotto due punti di vista. Il primo è che, quantunque non siano tanto sciocchi da dirlo in pubblico, senza dubbio i leader dei Paesi alleati e amici dell’America preferirebbero che a vincere fosse Harris per il semplice motivo che Trump minaccia di dare inizio a una guerra commerciale contro di loro, imponendo dazi del 10 per cento su tutte le importazioni, e spesso disprezza le alleanze militari in Europa e in Asia su cui l’America ha fatto affidamento dal 1945.
Questo spiega perché quei leader abbiano provato sollievo vedendo che Harris si è dimostrata una valida candidata e adesso ha buone possibilità di vittoria. La maggior parte dei governi alleati ha assistito con orrore all’ascesa, la caduta e la ricomparsa di Trump. Non si tratta di una questione personale: l’orrore riguarda quello che la popolarità di Trump e il suo potere politico dicono loro dell’America e del suo possibile cammino in futuro.
Il secondo modo con il quale l’affermazione di Harris coglie la realtà riguarda l’opinione che hanno dell’America i suoi nemici, primi tra tutti Cina, Russia e Iran. I loro leader probabilmente non hanno riso sul serio di Trump, se non altro non l’hanno fatto alla presenza della vicepresidente Harris. Di sicuro, però, intuiscono che una vittoria di Trump servirebbe meglio i loro interessi, perché questo risultato elettorale getterebbe discredito sulla democrazia americana, oltre ad aumentare il rischio di gravi disordini civili.
Molti funzionari che hanno prestato servizio nell’esercito o in politica estera occupando posizioni di alto grado durante la prima Amministrazione Trump – tra cui John Bolton e il tenente generale HR McMaster, entrambi consiglieri per la Sicurezza nazionale – hanno affermato pubblicamente di aver percepito che controparti straniere quali Vladimir Putin e Xi Jinping consideravano l’allora presidente Trump un uomo facilmente manipolabile. Il fatto che Trump sia chiaramente transazionale nel suo stile avvalora quell’impressione: è un uomo che può essere comprato.
Questa opinione di Trump può non essere corretta: forse sarebbe un avversario più duro di quello che pensano Putin e Xi, e anche la sua imprevedibilità può essere motivo di preoccupazione. In ogni caso, comunque, possiamo certamente affermare che sarebbero più contenti se il prossimo presidente degli Stati Uniti fosse un uomo rinnegato dai suoi stessi consiglieri del passato, da un numero incalcolabile di militari di alto grado e da ogni ex vicepresidente vivente compreso il suo. Potranno non ridere se vincesse, forse, ma sorridere sì.
Traduzione di Anna Bissanti