La guerra con i Cinque Cerchi
Uniformi, bandiere, conta delle medaglie: nessuno va per partecipare. I Giochi mettono in mostra la gerarchia e lo scontro feroce delle nazioni
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Uniformi, bandiere, conta delle medaglie: nessuno va per partecipare. I Giochi mettono in mostra la gerarchia e lo scontro feroce delle nazioni
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Uniformi, bandiere, conta delle medaglie: nessuno va per partecipare. I Giochi mettono in mostra la gerarchia e lo scontro feroce delle nazioni
Ammettiamolo una volta per tutte: i Giochi olimpici sono una guerra, una vera guerra. Altro che spazio miracolistico della pace, altro che il quadriennale inghingherarsi con l’Amore sudato, allegro e diffuso, le figurine d’Epinal: il nero che vince a piedi nudi, la afgana che corre quasi in chador…! L’idea olimpica dei tempi moderni creata dall’ellenizzante barone Pierre de Coubertin ci ha fornito, da tempo, una immagine rudemente didattica della guerra mondiale; non ci mostra troppo scopertamente il suo aspetto militare, ma esemplifica a chi sa leggere la gerarchia spietata e lo scontro feroce delle nazioni. Le uniformi araldiche e le bandiere, la conta minuziosa e astiosa delle medaglie, le preselezioni sempre più severe perché gareggino solo quelli che hanno possibilità di vincere: alle Olimpiadi si va per vincere non per partecipare. E vincere non è l’abc della guerra?
Suvvia. Solo il Papa poverino, ci crede ancora e distribuisce, ostinato e sepolto dal silenzio universale, le sacrosante civetterie pacifiste: si proclami la tregua olimpica in occasione dei Giochi di Parigi, scatti un cessate il fuoco! Ma dove? Singolo o universale? Nel Donbass, in quanto macello scandalosamente europeo? E a Gaza in Sudan in Siria perché no? Da bravi, imitiamo l’Ellade di Pericle. Mah… ad Olimpia barbari e schiavi erano ammessi solo come spettatori. Le donne sposate no. Il divieto di scannarsi era riservato ai greci e i giochi servivano per confermarne la superiore civiltà rispetto ai barbari.
Lo «spirito olimpico», ammesso che sia mai esistito se non come vacua retorica, è in crisi da quando è nato, ben prima delle prepotenze di Putin, perché non ha saputo o potuto resistere agli assalti dell’ideologia. L’olimpismo è un eterno e tenacissimo moribondo, dopo ogni rantolo sembra rialzarsi ma è come vetrificato. Ha perso il filo della sua storia e si offre per evidenziare i contorni dei Blocchi contrapposti, offrire vetrine scintillanti a regimi tirannici e ambiziosi, innescare la retorica di democrazie rantolanti. La sua unica universalità, se volete, è il consumismo spettacolare e redditizio, l’incultura del record, il campionismo che è il contrario dello sport.
Oddio: iniziano le Olimpiadi e a migliaia muoiono nelle trincee! E allora? Cosa direbbe de Coubertin di fronte a questa sua ennesima lacerata creatura parigina? Che cosa denuncerebbe e scomunicherebbe? Urlerebbe furente e disperato: io non ho voluto tutto questo? Ma no. Forse nel 1936 non sentenziò soddisfatto che nessun popolo come quello tedesco aveva compreso lo spirito olimpico? Facciamoci rodere da un dubbio molesto e salutare: con le Olimpiadi si fa politica, qualche volta anche qualcosa di peggio, una maschera più allusiva, più elaborata e falsa, anche più seducente. Si esclude e si ammette a seconda di dosaggi e alleanze: Russia no, Bielorussia no, Corea del Nord sì, Israele sì… Si chiedono per le gare individuali abiure da Inquisizione, si fissano limiti numerici, niente sfilate, nessun simbolo nazionale… Non sono per caso diventate un capitoletto neppur troppo secondario della cosiddetta guerra ibrida in cui ogni materiale serve a indebolire l’avversario e ad avvicinare la vittoria? Gli atleti russi esclusi in quanto appestati e complici a prescindere dell’autocrate aggressore e nemico dell’Occidente: che sia un tassello spettacolare dell’operazione di diabolizzare i russi in quanto tali, insieme alle sanzioni economiche, i divieti di contatti umani e culturali, le incriminazioni internazionali? La fraternità accarezzata dal Barone è esistita quanto fioriscono le rose delle nostre belle utopie.
De Coubertin aveva impresso nella sua biografia tutte le contraddizioni della sua creatura: spirito illuminato ma pronto a indossare tutti i pregiudizi, aperto alle idee nuove ma non sull’educazione e la scuola, liberale ma volentieri reazionario. Aveva come motto: mente fervida in un corpo allenato che preferiva al più mite «mens sana in corpore sano». Non vi pare una etica più marziale che spirituale, una idea dello sport che passa attraverso la sofferenza controllata con il metterla alla prova e che incita lo «sportman» a tenersi pronto per altri cimenti meno innocui? Nel 1913 l’Europa, come nel 2022, era in pace e il barone scriveva nei suoi saggi di psicologia sportiva che lo sport prepara allo sforzo della guerra. Anzi, prevedeva che le giovani generazioni plasmate dalla pratica olimpica non avrebbe più combattuto la guerra come prima: un esercito di sportivi sarà più umano, più pietoso nella lotta, più calmo che prima…». Previsioni che sarebbero tragicamente affondate nelle trincee delle fiandre. L’internazionalismo sportivo come quello proletario andò, allora come oggi, in mille pezzi. E il buon barone si affannò a partecipare alla sbornia patriottica e revanchista sbertucciando i pacifisti che avevano favorito il disarmo morale e messo a rischio la disciplina militare!
I nazisti avevano capito l’ipocrisia e l’inganno. Lo spirito olimpico era una bestemmia per la loro idea totalitaria dell’uomo: puri e impuri, uomini e non uomini. Sfruttarono magistralmente l’occasione del Giochi del 1936, «saranno i più grandi della storia» proclamarono. Il timido tentativo di boicottaggio fallì miseramente nonostante si sapesse la natura del regime nazionalsocialista. Il Comitato olimpico era consapevole dell’uso che Hitler avrebbe fatto dell’evento mondiale. I suoi delegati erano presenti il 20 luglio del 1936 tra le rovine dell’antico stadio di Olimpia dove il cerimoniale prevedeva che undici fanciulle con indosso pepli di lana grezza sfilassero davanti alla fiaccola olimpica. Che fu accesa da una lente realizzata dalla tedesca Zeiss concentrando la luce del sole su una fascina imbevuta di benzina.
Un funzionario del Cio lesse il messaggio di de Coubertin che citando gli «antichi insegnamenti» invocava «lo spirito della grecità eterna che non ha cessato di illuminare la strada dei secoli». Le parole si erano appena spente e una banda musicale tedesca attaccò «Horst Wessel Lied», la sanguinosa marcia delle SA, le squadre d’assalto del partito nazista. Ecco: il pacifico valore sportivo della gioventù mondiale… Le Olimpiadi dei nazisti, mentre infuriava la guerra di Spagna! Fu un tassello della discesa tedesca verso gli inferi, un test sulla viltà delle democrazie e la loro volontà di chiudere gli occhi.
E nel ’72, Monaco? bisognava far dimenticare le Olimpiadi con la svastica: niente gigantismo, niente grandeur, trasparenza e chiarezza, stendardi olimpici color pastello. E poliziotti disarmati e in eleganti divise azzurre. Solo i colori della pace e dell’allegria rilassata, proclamarono gli organizzatori. I killer di settembre nero sapevano che il villaggio olimpico era solo un fronte possibile, la guerra non era miracolosamente sospesa, o vietata. Irruppero con i kalashnikov. La guerra non si ferma mai.
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