La rabbiosa vendetta dello Zar non cambia le sorti del Kursk
Il blitz ucraino ha stracciato tutte le «linee rosse» e smascherato le minacce vuote. E quella che doveva essere una prova di forza rivela solo le debolezze russe
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Il blitz ucraino ha stracciato tutte le «linee rosse» e smascherato le minacce vuote. E quella che doveva essere una prova di forza rivela solo le debolezze russe
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Il blitz ucraino ha stracciato tutte le «linee rosse» e smascherato le minacce vuote. E quella che doveva essere una prova di forza rivela solo le debolezze russe
Kalibr, Kinzhal, Iskander, X-22, X-101 e X-59: per punire l’Ucraina Vladimir Putin ha fatto ricorso a tutto il suo arsenale, o quasi, missili balistici e da crociera, lanciati da bombardieri, navi e caccia, senza contare uno stormo di droni iraniani. Uno sfoggio di arsenale, costato al contribuente russo, secondo le stime degli esperti militari occidentali almeno 1,3 miliardi di dollari, e uno sfogo di rabbia, che ha fatto ripiombare l’Ucraina nel buio dei blackout dopo le esplosioni nelle centrali elettriche. La rappresaglia del Cremlino per lo sfondamento delle truppe di Kyiv in territorio russo era attesa, e invocata a gran voce dai politici e dai propagandisti russi, non soltanto per dare una soddisfazione all’opinione pubblica interna, ma anche per misurare l’entità, politica e militare, della reazione russa.
Il risultato non sembra però aver entusiasmato, a giudicare almeno dal prudente silenzio dei capi della comunicazione del Cremlino. E non solo perché dei 127 missili e 109 droni lanciati la maggioranza – 102 e 99 rispettivamente – sono stati abbattuti dalla contraerea ucraina. L’attacco notturno di domenica notte – il comando di Mosca ha fatto la scelta, probabilmente non casuale, di aspettare la fine del weekend dei festeggiamenti del giorno dell’Indipendenza ucraina – è stato uno dei più massicci di tutti i due anni e mezzo dell’invasione russa. Segna indubbiamente la fine di un eventuale negoziato sull’impegno reciproco a non colpire infrastrutture, la cui esistenza è stata peraltro smentita ieri da Dmitry Peskov. Ma non si è trattato di un raid qualitativamente diverso dai tanti altri che hanno colpito le infrastrutture civili e le città ucraine, e in un Paese dove dopo le scuole nei rifugi antiaerei stanno aprendo sportelli bancari sotterranei una ennesima pioggia di bombe può soltanto aumentare la rabbia contro i russi.
All’interno del regime putiniano, invece, questa rappresaglia non appare, paradossalmente, come un gesto di determinazione. Sono due settimane che un pezzo di territorio russo si trova sotto occupazione delle truppe ucraine, con un centinaio di cittadine e villaggi passati sotto il controllo di Kyiv, 120 mila civili sfollati e centinaia di soldati russi caduti prigionieri. Indiscrezioni dal Cremlino sostengono che Putin avesse dato ai suoi generali l’ordine di scacciare gli invasori entro ottobre, ma a giudicare dall’evoluzione sul campo, non sarà cosi facile. Intanto, sulle fabbriche e gli aeroporti militari nel profondo della Russia continuano ad abbattersi droni, le raffinerie prendono fuoco e i sindaci della “zona frontaliera”- il nuovo eufemismo con il quale si definisce nei comunicati ufficiali la zona russa sotto attacco – invitano i cittadini a fuggire.
Il blitz ucraino ha stracciato tutte le “linee rosse” per il superamento delle quali il Cremlino aveva minacciato escalation senza precedenti. L’invasione da Ovest, la violazione del confine, la terra russa calpestata dal nemico sono fobie nazionali che Putin ha paranoicamente coltivato, giustificando qualunque cosa con la necessità di proteggere i suoi sudditi sul suolo patrio. Le immagini dei contadini russi che chiacchierano con i soldati di Zelensky non mostrano soltanto la debolezza militare del sistema russo: sdrammatizzano l’incubo, ricalibrano la paura, e sembra che molte mamme russe temano più un invio in battaglia (secondo alcuni segnali imminente) dei soldati di leva, che il tanto minacciato arrivo delle “armi Nato in terra russa”. L’assenza della escalation come ritorsione per le “linee rosse”, tante volte minacciata da Mosca, allevia anche le tensioni degli occidentali, e la cancellazione dei divieti anche formali per l’uso delle armi fornite a Kyiv in territorio viene considerata da diversi commentatori russi ormai una questione di tempo.
Putin aveva scommesso sulla tenacia della violenza, convinto che la determinazione degli ucraini e degli occidentali avesse una scadenza, quella dell’insediamento di Trump. Ora, la vittoria del candidato repubblicano alle elezioni di novembre appare meno inesorabile, e gli ucraini, invece di subire un martirio, hanno ribaltato le regole del gioco. Sorpresa alla quale il Cremlino era impreparato, e lo scrittore Ivan Filippov, che su Telegram gestisce un canale di analisi della propaganda militare russa, nota come i “Z-blogger” denunciano il disastro della «situazione a Kursk», come la chiama Putin, senza però mai criticare il comandante supremo. Prudenza dettata ovviamente dalla paura – le celebrazioni dell’anniversario della morte di Evgeny Prigozhin hanno ricordato che fine fanno i critici del dittatore – ma anche, secondo Filippov, da una «fede di stampo religioso» in Putin. Dal quale si aspettavano tuoni e fulmini, e non silenzi ed esitazioni, e soprattutto una lungimiranza quasi onnisciente, invece di silenzi, indecisioni e sfoghi missilistici che difficilmente cambieranno la situazione, nel Donbas come a Kursk.
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