La scommessa ad alto rischio
Di Stefano Stefanini, La Stampa Il dado è tratto. L’ingresso delle truppe di terra israeliane nel Libano meridionale, che da ieri sera sembra definitivamente avviato, vuol dire...
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Di Stefano Stefanini, La Stampa Il dado è tratto. L’ingresso delle truppe di terra israeliane nel Libano meridionale, che da ieri sera sembra definitivamente avviato, vuol dire...
• – Redazione
Rita Baroud, studentessa della Striscia racconta la vita questi giorni. “Israele ha consegnato 88 corpi deturpati senza nome al Ministero della Salute. Ottantotto persone, 88 sogni, 88 famiglie in attesa di qualsiasi segno, mentre i corpi restano senza nome, senza volto. Tra di loro potrebbero esserci medici, ingegneri, insegnanti e commercianti”
• – Redazione
Crescono le forze reazionarie in tutta Europa; la risposta democratica spetta anche alla Scuola, come segnala il pedagogista e ricercatore Philippe Meirieu
• – Adolfo Tomasini
Sara Rossi Guidicelli, giornalista e scrittrice bleniese, ricostruisce un’emblematica vicenda che caratterizzò la storia industriale ticinese di fine Novecento
• – Michele Ferrario
I sondaggi lo riportano in testa, ma cosa ne farà dei suoi attuali succesi sul piano militare e dell'intelligence?
• – Aldo Sofia
Noi europei occidentali vi assistiamo, forti di crederci al riparo delle catastrofi globali
• – Redazione
Il “cordone sanitario” nei confronti dell’ultradestra diventa una necessità inderogabile
• – Redazione
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
L’eliminazione di Nasrallah cambia lo scenario regionale: gli ayatollah di Teheran perdono il principale segmento del “Fronte della resistenza” contro Israele
• – Aldo Sofia
Dallo sceicco Yassin a Nasrallah, lo Stato ebraico alza sempre più il tiro. Per una nazione nata dall’orrore e dalle persecuzioni è rinnegare se stessi
• – Redazione
Il dado è tratto. L’ingresso delle truppe di terra israeliane nel Libano meridionale, che da ieri sera sembra definitivamente avviato, vuol dire una cosa sola: Gerusalemme è arrivata alla conclusione strategica che la minaccia rappresentata da Hezbollah va estirpata. Non solo intimidita, decapitata, degradata come già fatto nell’ultima settimana. Non basta. Hezbollah come milizia armata va tolta di mezzo quanto meno dalla fascia del Libano a Sud del fiume Litani.
Era quanto previsto dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2006, che abbiamo sentito spesso evocare da parte israeliana in questi mesi. Invano. La 1701 era ed è rimasta lettera morta, con l’Unifil incapace di impedire che il Sud del Libano diventasse una roccaforte del Partito di Dio e di tenere a freno gli attacchi sciiti che, per solidarietà con Hamas dopo il 7 ottobre, hanno spopolato i villaggi israeliani alla frontiera, causando sessantamila sfollati. Nell’ottica di Gerusalemme, con la 1701 una volta tanto l’Onu aveva fatto qualcosa di buono impegnandosi a garantire la smilitarizzazione a Sud del Lituani. Non l’ha attuato? Lo farà Israele, ovviamente con le modalità di Tsahal non con quelle dei caschi blu.
Da decenni Israele conviveva con la guerriglia a intensità variabile di Hezbollah. Non la riteneva una minaccia esistenziale, forse anche perché le milizie sciite sono state a lungo impegnate in altri teatri, specie in Siria a sostegno di Bashar Assad. Così come conviveva con Hamas a Gaza, pure non considerato minaccia esistenziale. Per Hamas a fare venir meno la tolleranza per motivi più che trasparenti è stata la strage del 7 ottobre. La guerra a Hezbollah rientra in un calcolo strategico più complesso. Attaccando frontalmente il Partito di Dio in Libano Israele vuol rompere l’accerchiamento pazientemente realizzato dall’arco di resistenza sciita sotto regia di Teheran, comprendente Hamas(non sciita ma finanziato ed equipaggiato dall’Iran) a Sud, ma soprattutto «l’arco di resistenza» delle milizie pro-iraniane che va dagli Houthi in Yemen – che infatti hanno appena subito una pesante rappresaglia iraniana – a varie milizie in Iraq e Siria, fino alla punta di diamante, Hezbollah in Libano.
L’operazione di terra era nell’aria dal momento in cui erano state spostate truppe da Gaza a Nord e richiamati riservisti. È appena iniziata per cui non è possibile dire se sarà semplicemente un’incursione, se punterà al controllo territoriale di una fascia di territorio, se addirittura si spingerà fino a Beirut, come nel 1982, con l’obiettivo di alterare a favore di Gerusalemme gli equilibri interni del Libano. Fallì allora dopo un travolgente successo militare per cui sembra improbabile che Netanyahu voglia spingersi sulla stessa strada. A maggior ragione quando c’è da attendersi un’agguerrita e feroce resistenza da parte di Hezbollah, pur privato della carismatica leadership di Hassan Nasrallah, pur colpito in più punti e debilitato logisticamente e nelle comunicazioni. Il Partito di Dio si prepara da anni a questa invasione. Ha milizie numerose, ben armate e addestrate sui campi di battaglia della Siria.
L’ingresso di truppe israeliane in Libano, specie se andrà oltre il «mordi e distruggi» è dunque una grossa e rischiosa scommessa militare – senza per ora addentraci negli scenari politici nei quali la grande incognita è cosa farà l’Iran: subire (ancora!) o reagire? Ma reagire non sarebbe proprio quello che Israele vuole? A Teheran, dove la dirigenza è divisa e il fronte interno fragile, ci si deve domandare come non cadere in una trappola israeliana e salvare la faccia – in Medio Oriente nulla è peggio che dare la percezione di debolezza. Quanto al resto della regione, a parte invocazioni di solidarietà col Libano, le capitali arabe sunnite non si strapperanno i capelli per le disgrazie di Hezbollah, e tanto meno per le angosce di Teheran.
Chi ha ribaltato l’equazione dei rapporti di forza, esattamente un anno dopo il massacro del 7 ottobre, è Israele. Hezbollah, e l’Iran, non avevano capito che il dado era tratto da tempo. Quello che sta succedendo in Libano, dai pager che esplodono alle 80 bombe che hanno colpito il quartier generale che ospitava Narsrallah, non si improvvisa. E adesso la parola passa all’operazione di terra. Anche quella certamente non improvvisata. È sul dopo la fase militare che le nebbie sono ancora fitte.
Il presidente Usa proponeva una soluzione con gli alleati arabi e l’Anp. Il premier ha optato per la guerra totale, in attesa delle elezioni di novembre
Di Simona Siri, La Stampa
Non più di una settimana fa l’ex portavoce di Israele Eylon Levy e l’ex giornalista di Al Jazeera Mehdi Hasan si sono incontrati a New York in un dibattito pubblico molto acceso. La domanda alla quale entrambi dovevano rispondere, ognuno portando argomentazioni opposte all’avversario, era semplice quanto fondamentale: l’azione di Israele a Gaza è giustificata? È la madre di tutte le domande e anche il quesito dal quale parte il tre volte premio Pulitzer Thomas L. Friedman in un suo lungo ragionamento apparso sul New York Times, insieme all’altro, ugualmente fondante: che cosa avrebbe dovuto fare Israele dopo l’attacco del 7 ottobre 2023? Quale sarebbe stata una condotta accettabile per se stesso e per gli altri? «È una questione potente e rilevante, che i critici di Israele spesso evitano. Ma non sono gli unici a schivarla», scrive.
«Questo governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu vuole che tu, io e ogni israeliano e tutti gli amici di Israele – e anche i nemici – crediamo che ci sia sempre stata una sola risposta giusta: invadere Gaza, dare la caccia a ogni leader e combattente di Hamas, ucciderli tutti fino all’ultimo senza lasciarsi scoraggiare dalle vittime civili, poi prendere a pugni Hezbollah in Libano – e fare entrambe le cose senza perdere tempo a pianificare una strategia di uscita. Fin dal primo giorno ho sostenuto che si trattava di una trappola, una trappola che mi dispiace dire che l’amministrazione Biden non è stata abbastanza ferma nell’impedire a Israele di cadere e non abbastanza ferma nell’insistere su una strada migliore, una strada non intrapresa». È anche la linea sulla quale Kamala Harris sta cercando di camminare, quando parlando della situazione in Medio Oriente, conferma il sostegno a Israele a difendersi per poi aggiungere: «… ma come lo fa è importante».
A quasi un anno dall’evento che ha scatenato tutto, il «come» sta diventando quasi più importante del «perché» e lo sta diventando non solo per le pressioni dell’opinione pubblica mondiale, ma per l’esistenza stessa e la sopravvivenza dello stato ebraico che, sempre secondo Friedman, «è oggi in grave, gravissimo pericolo. E il pericolo viene sia dall’Iran che dall’attuale coalizione di governo israeliana. Non mi sono mai fatto illusioni sulle macro ragioni di questa guerra. È il dispiegarsi di una grande strategia iraniana volta a distruggere lentamente lo Stato ebraico, indebolire gli alleati arabi dell’America e minare l’influenza degli Stati Uniti nella regione – dissuadendo Israele dall’attaccare gli impianti nucleari iraniani – utilizzando rappresentanti iraniani per dissanguare Israele a morte. Questa è la macrostoria. La strategia iraniana è squisita dal punto di vista di Teheran: distruggere Israele sacrificando tutti i palestinesi e libanesi necessari, ma non rischiare mai una sola vita iraniana. Gli iraniani sono pronti a morire fino all’ultimo libanese, all’ultimo palestinese, all’ultimo siriano e all’ultimo yemenita per eliminare Israele (e distrarre il mondo dagli abusi del regime iraniano nei confronti del proprio popolo e dal controllo imperialista su Libano, Yemen, Iraq e Siria).
Il problema per gli israeliani e il popolo ebraico è che il governo Netanyahu (…) si è rifiutato di condurre la guerra nell’unico modo che potesse sperare di portare al successo, perché era contrario agli interessi politici del primo ministro e agli interessi ideologici messianici della sua coalizione. Il presidente Biden e il suo team hanno offerto a Israele una road map per quella controstrategia ma, purtroppo, non hanno mai avuto la forza di imporla a Netanyahu con una combinazione di influenza, diplomazia e ultimatum. Una road map di questo tipo avrebbe comportato il persuadere gli alleati arabi dell’America a riformare radicalmente l’Autorità Palestinese in Cisgiordania con una leadership nuova e credibile e poi convincere Israele ad accettare di aprire negoziati su un percorso a lungo termine verso una soluzione a due Stati». Per contrastare la minaccia iraniana, dice Friedman, Israele aveva bisogno di quattro cose: molto tempo, molte risorse e molti alleati arabi ed europei, perché «Israele non può combattere da solo una guerra di logoramento».
Cosa più importante: aveva bisogno di molta legittimità. Il fallimento della diplomazia americana, la non volontà di Netanyahu di dare ascolto a Biden e l’implemento della sua personale strategia – ovvero combattere su tre fronti Gaza, Libano e Cisgiordania senza alcun piano per il dopo: l’autore la chiama «disastrosa» – ha portato Israele dove è ora: in pericolo più che mai, isolata. La famosa trappola di cui anche Biden aveva avvertito Netanyahu durante la sua visita a Tel Aviv, a ottobre, subito dopo l’attacco di Hamas. «Quando si combatte una guerra come questa senza un orizzonte politico per così tanto tempo l’operazione militare israeliana inizia a sembrare un omicidio fine a se stesso», chiosa Friedman. «Questo è proprio ciò che vogliono Hamas, Hezbollah e l’Iran.
L’unica cosa che so per certo è che la strada su cui Netanyahu ha bloccato Israele adesso è una strada verso la rovina, circondata da un anello di fuoco. Mantieni questa rotta e le persone più talentuose di Israele inizieranno ad andarsene, e l’Israele che conoscevi se ne sarà andato per sempre».
Il regista israeliano presenta la sua pièce teatrale: «L’arte non può cambiare la situazione ma indicare la via. Il dibattito sulla guerra è tossico, non è un conflitto tra gli angeli e i bastardi o tra il bene e il male»
Di Luca Monticelli, La Stampa
«Non è bombardando tutto l’esistente che si può risolvere un conflitto di così lungo corso, non è possibile affidarsi solo alla violenza, è necessario elaborare una strategia di pace fondata sul dialogo». Amos Gitai, regista e scrittore israeliano, in tutta la sua opera ha raccontato al cinema e a teatro il trauma della guerra e l’esigenza di trovare «un modus vivendi che consenta a persone molto diverse tra loro di vivere insieme». Continua ostinatamente a portare avanti il suo manifesto intellettuale, nonostante lo choc del 7 ottobre, i bombardamenti a Gaza e il nuovo fronte di guerra in Libano. Nel corso di un incontro con alcuni giornalisti, Gitai presenta la sua ultima opera che andrà in scena al Romaeuropa Festival al Teatro Argentina dall’8 al 10 ottobre. La pièce House racconta la storia di una casa a Gerusalemme per un quarto di secolo, attraverso le vite di arabi ed ebrei che vi hanno abitato. Sul palco attori israeliani, palestinesi, francesi e musicisti iraniani. È uno spettacolo «sulla speranza, sul valore della memoria e su una possibile direzione da intraprendere per una risoluzione dei conflitti».
A un anno dal 7 ottobre, il Medio Oriente è funestato ancora da morte e violenza. Cosa può fare l’arte?
«Non può cambiare le cose in modo diretto, ma ha un valore simbolico che ci aiuta a capire le complessità del reale. Io credo molto nella memoria storica, l’emblema da questo punto di vista è Guernica di Picasso, lui ha lasciato una traccia del bombardamento della Luftwaffe che ha acquisito nel tempo valore testimoniale. È così che l’arte può aiutarci a legare il passato con il presente, perché gli eventi traumatici del passato continuano a produrre eco nel presente».
Cosa chiede alla politica?
«Stiamo vivendo un momento davvero molto oscuro, difficilissimo, c’è bisogno che i leader politici – di tutto il Medio Oriente – siano in grado di andare nella giusta direzione per risolvere il conflitto, speriamo di avere dei leader che abbiano una visione più ottimista del futuro».
Yitzhak Rabin è una figura costantemente presente nella sua opera, in questi ultimi mesi ha ripensato alla notte in cui è stato assassinato?
«Rabin è stato un politico che ha provato a promuovere il dialogo con i palestinesi, era interessato anche ad arrivare a un accordo tra le variegate strutture interne alla società israeliana. L’attuale governo israeliano invece crede fermamente nella forza militare, ma è ridicolo pensare di vivere in pace solo attraverso l’uso della forza, non è possibile andare avanti con una strategia che sia basata sulla violenza e sulla guerra».
Che cosa pensa del modo in cui si discute del conflitto israelo-palestinese sui media, nelle università e nelle piazze?
«Stiamo vivendo un dibattito sulla guerra estremamente tossico, le persone vogliono risposte immediate, ma non è possibile, non c’è una sola risposta perché la situazione è estremamente complessa e piena di contraddizioni. Dobbiamo uscire dal paradigma manicheo che contrappone gli “angeli” ai “bastardi”. Non si tratta di un conflitto così semplice, non si può vedere il bene da una parte e il male dall’altra, non si deve semplificare in questi termini. Se pensiamo al massacro del 7 ottobre, da una parte abbiamo gli israeliani scioccati dall’operato di Hamas, dagli stupri e dalla brutalità inaudita. Dall’altra parte abbiamo i palestinesi scioccati dal massacro che da oltre un anno si protrae a Gaza. Se il nostro punto di vista resta rigido penso che il conflitto non possa che andare avanti».
Da pacifista e uomo di sinistra che effetto le fanno le manifestazioni di piazza a cui partecipano così tanti giovani, studenti e associazioni femministe che gridano slogan contro Israele e il sionismo?
«Non posso rispondere ai posizionamenti dei singoli gruppi rispetto al conflitto, sicuramente si sono create delle coalizioni molto strane. Posso però proporre una riflessione sui valori della sinistra che io condivido e non riguardano solo la critica al capitale, e sono inerenti alla giustizia sociale, all’accesso alle cure mediche, al diritto di vivere in società eque ed inclusive. Questi sono i valori che apprezzo e sposo».
Torniamo all’importanza della memoria e all’arte, può il teatro essere un antidoto alla superficialità?
«L’arte non ha il potere di modificare la realtà in modo rapido e veloce, però può generare il tempo lungo della riflessione. L’arte incoraggia le persone a riflettere in modo profondo e non nel modo tossico, piatto e bidimensionale che invece viene spesso proposto dall’informazione veloce e bulimica. Io penso che la memoria sia un dispositivo che ci consente di orientarci nella realtà, è il senso della direzione verso cui andare. In Israele è un momento molto difficile per l’arte e gli artisti perché stiamo vivendo l’esperienza della guerra, il Paese è consumato dal conflitto, come dice il detto “quando gridano i cannoni le muse restano in silenzio”. È importante promuovere un dialogo tra israeliani, palestinesi, iraniani, europei; un dialogo come quello che abbiamo immaginato in “House”».
Nell’immagine: Le truppe israeliane entrano in Libano: «Operazione mirata e limitata»
Audizione al Senato Usa di Sam Altman, fondatore e Ceo di OpenAI (ChatGPT):“Siamo preoccupati per l’impatto sulle presidenziali del 2024”
Di Domenico Quirico, La Stampa 13 Ottobre 2023 alle 01:00Assedio. La definizione sembra facile: una città, un castello, un luogo munito di mura, torri, bunker che viene circondato...