Di Francesca Mannocchi, La Stampa
TULKAREM. Lo scorso aprile un giovane dal viso scavato viene immortalato mentre cammina per le vie di Tulkarem. Imbraccia un fucile durante un corteo funebre. Niente di nuovo per una città abituata alle rituali processioni che seguono la morte dei combattenti dopo i raid israeliani. Però quello non era un ragazzo qualunque, era Abu Shujaa (“il padre del coraggio”), leader delle Brigate Tulkarem dal 2022, gruppo affiliato alle Brigate Al-Quds, l’ala militare del movimento palestinese della Jihad islamica.
Abu Shujaa, che era stato dichiarato morto due giorni prima. L’esercito israeliano aveva annunciato la sua morte, al termine di un raid nel campo di Nur Sham: ucciso in una casa dove si era nascosto con i suoi uomini. Un’operazione, quella israeliana, che aveva coinvolto il servizio di sicurezza interna, Shabak, e la guardia di frontiera. Un raid durato giorni, che aveva provocato morte e distruzione nel campo di Nur Sham.
Ma Abu Shujaa non solo era sopravvissuto, si mostrava in strada, in mezzo alla gente, che già lo considerava un eroe, perché non era la prima volta che le forze armate israeliane provavano a stanarlo. Solo negli ultimi mesi, i raid che avevano lui come obiettivo erano stati almeno tre. Più uno dell’Autorità palestinese, che pure lo aveva sulla lista dei ricercati.
Alla fine di luglio si era ferito in un’esplosione mentre fabbricava una bomba, i suoi lo avevano portato al Thabet Thabet Governmental Hospital di Tulkarem, l’Autorità nazionale palestinese ne era venuta al corrente e ha tentato di fare irruzione, ma quando nel campo si è diffusa la notizia, i gruppi armati palestinesi hanno dichiarato nafir, una parola che indica la mobilitazione popolare. Mentre la gente gridava «sporchi traditori», i combattenti delle Brigate Tulkarem hanno bloccato l’accesso all’edificio e costretto gli uomini dell’Autorità palestinese a ritirarsi e poi hanno sparato contro le forze di sicurezza della sede locale dell’Ap.
Una settimana fa, l’imponente operazione militare israeliana che ha colpito Jenin e i due campi di Tulkarem, lo ha ucciso davvero. Abu Shujaa, leader delle Brigate Tulkarem, è morto davvero. Aveva 26 anni.
Mohammed Jaber, questo era il suo nome, era nato nel 1998 a Nur Sham, uno dei due campi profughi di Tulkarem. La sua famiglia, come quasi tutte quelle del campo, era arrivata lì da Haifa dopo la nakba, lo sfollamento forzato che nel 1948 ha costretto 700 mila palestinesi a lasciare le loro terre per non tornarvi mai più. È nato nel campo, cresciuto nel campo, nel campo ha studiato prima di lasciare la scuola perché le condizioni economiche della sua famiglia erano disastrose e i cinque figli dovevano lavorare. A 17 anni era già parte dei gruppi armati, e pochi mesi dopo già in prigione. In totale ha speso cinque dei suoi 26 anni nelle carceri israeliane e alcuni mesi in quelle dell’Autorità nazionale palestinese. Nel 2022 ha co-fondato il Battaglione di Tulkarem con il suo primo comandante, Saif Abu Labdeh, poi ucciso. Personalmente allineato con Fatah, ha lasciato il partito dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza a ottobre del 2023 e si è unito alla Jihad islamica palestinese. Nella sua ultima apparizione, un’intervista di metà agosto col canale libanese Al Mayadeen,aveva detto: «Se il nemico mi assassina, continueremo. La lotta non finisce con una persona, ci saranno generazioni a sollevarsi per difendere i nostri diritti». Sapeva di avere i giorni contati, ricercato da anni perché aveva pianificato attacchi in tutta la Cisgiordania, contro i soldati israeliani, i posti di blocco, tra cui una sparatoria che a giugno aveva ucciso un soldato israeliano a Qalqilya. Negli ultimi mesi il battaglione che comandava aveva sviluppato nuove tecniche sulla fabbricazione di esplosivi, sulla creazione di unità nel territorio di supporto logistico. Era il primo sulla lista dei ricercati di Tulkarem per gli israeliani, e un eroe per la maggior parte della gente del campo di Nur Sham.
I campi dopo il 7 ottobre
Dall’inizio della guerra a Gaza, Israele ha effettuato 46 operazioni militari nella zona di Nur Sham e Tulkarem. La prima il 19 ottobre, l’ultima – la più violenta – conclusasi meno di una settimana fa. In tutto sono stati uccisi 90 palestinesi e demolite 130 case. Per l’esercito israeliano le incursioni a Tulkarem, come a Jenin, sono necessarie per sradicare i gruppi armati. Per i gruppi armati la violenza è l’unica forma di resistenza possibile a un’occupazione che va avanti da decenni. Per i civili, i 12 mila palestinesi che vivono nei due campi di Tulkarem, ogni raid è una punizione collettiva. Sono state distrutte le strade principali, i negozi, un asilo, un centro giovanile, le scuole, le sedi ufficiali di organizzazioni locali, tre moschee parzialmente danneggiate. Le strade di accesso e d’uscita sono chiuse e non più praticabili.
In strada, dopo ogni raid, chi vive nei campi alterna rabbia e sconforto. Qualcuno grida contro i veicoli israeliani, i ragazzini mostrano i nuovi poster apparsi sui muri: c’è il volto di Yahya Sinwar, il capo politico di Hamas, e sotto una scritta che recita: «sei il nostro leader e onorerai la memoria del martire». Il martire è Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran presumibilmente da una bomba israeliana. I volti degli altri combattenti disegnati sui muri di ogni casa.
Qualcuno, più defilato, racconta una desolazione diversa. Come Abu Omar che vive in cima alla collina di fronte al campo di Nur Sham, da lì vede tutto quello che accade durante i raid. È stato un combattente ai tempi della seconda intifada e ha passato quattro anni in prigione. Oggi dice: «Abbiamo perso. La lotta armata è destinata a fallire». Lo dice a sé stesso e ai giovani di oggi. Com’era Abu Shujaa. Gli diceva che piantare ordigni esplosivi in mezzo alla strada forse avrebbe fatto saltare in aria un blindato israeliano, ma alla lunga gli avrebbe messo contro la gente, perché per quanto si celebrino i martiri nei cortei dei funerali, tutti preferiscono un figlio vivo a uno morto. «E, gli dicevo, è uno degli obiettivi di Israele dividerci all’interno. Far sì che i primi a ribellarsi ai gruppi armati siano gli abitanti del campo».
Su una cosa, però, nel campo sono tutti d’accordo: i gruppi armati crescono quando tutte le altre soluzioni hanno fallito. «L’Autorità palestinese ha fallito da tanto tempo – dice Abu Omar – anche per questo i ragazzini scelgono le armi sempre prima. Quelli che combattono oggi sono cresciuti negli ultimi 15, 16, 17 anni. Vedo questi ragazzini che imbracciano i fucili, spostano ordigni esplosivi, e mi fa disperare». Le sue parole rispecchiano un sentimento comune, non solo nei campi ma in tutta la Cisgiordania. Nessuno si fida più delle soluzioni politiche, nessuno si fida dell’Autorità palestinese, considerata da tutti un’entità di collaborazionisti.
«Il livello di sostegno alla lotta armata in Cisgiordania prima del 7 ottobre era di circa il 54 %. Oggi è quasi del 70 %. Abbiamo visto, quindi, un aumento di circa 14-15 punti percentuali, mentre il 62 % sostiene lo scioglimento dell’Autorità palestinese – scrive Khalil Shikaki, politologo del Palestinian Center for Policy & Survey Research -. La percezione è che oggi non ci sia alcuna opzione politica o diplomatica disponibile per i palestinesi. Se i palestinesi sono insoddisfatti dello status quo, l’unico modo per cambiarlo è la violenza, la lotta armata, la formazione di gruppi armati. Questo è un ragionamento fondamentale che la stragrande maggioranza dei palestinesi oggi sostiene pienamente». Con ogni incursionedell’esercito il risentimento tra la popolazione locale, soprattutto tra i giovani, cresce. E i gruppi armati, anziché indebolirsi, si rafforzano in numero e rabbia.
A studiare i gruppi armati e i battaglioni nati o riuniti negli ultimi anni, anche l’Armed Conflict Location and Event Data Project, un progetto di raccolta, analisi e mappatura di dati disaggregati sui conflitti. L’organizzazione ha mappato i gruppi armati attivi nella Cisgiordania occupata, verificando che il numero di queste brigate è aumentato esponenzialmente tra ottobre del 2022 e settembre del 2023, e ancora molto di più dopo ottobre del 2023, periodo che corrisponde all’intensificazione della presenza delle truppe israeliane nella regione prima e dei raid quasi quotidiani poi. Nel suo studio, Acled ha osservato che «molti membri di questi gruppi locali sono giovani, spesso senza alcuna formazione precedente nell’uso delle armi, né con un background politico o una strategia che vada oltre la resistenza armata, che operano di propria iniziativa senza una gerarchia di comando».
Un modo articolato per dire quello che Abu Omar, dalla sua collina di fronte a Nur Sham, dice in modo più semplice: «Provo a dire ai più giovani di credere di poter essere utili alla causa palestinese e non pensare a chi li sostituirà quando moriranno. Ma molti di loro hanno già perso la speranza. Prendono le armi solo per dire “siamo vivi, abbiamo anche noi diritto a esistere”».
Nell’immagine: dall’inizio della guerra a Gaza l’Idf ha effettuato 46 operazioni militari nella zona di Nur Sham e Tulkarem