Macron ha portato la Francia a una situazione del tutto inedita nel dopoguerra, e apparentemente non sa come uscirne. Nel frattempo, in Germania e in tutt’Europa, gli estremismi crescono sia a destra che a sinistra. Marc Lazar, professore di Storia e Sociologia a Sciences Po a Parigi e titolare alla cattedra Bnp-Bnl-Paribas Relazioni italo-francesi per l’Europa alla Luiss di Roma, non ha idea di come possa andare a finire. Ma sa chi ha generato tutto questo.
E adesso cosa può succedere?
«Che ci sia un aumento della diffidenza nei confronti della politica. I francesi dicono: abbiamo votato per un cambiamento, ma niente cambia. Com’è possibile?»
È giustificabile che Macron non voglia affidare il governo alla candidata del nuovo fronte popolare Lucie Castets?
«Sì e per diverse ragioni. Appena vinti i ballottaggi Mélenchon ha detto: tutto il programma, solo il programma. C’è un’enorme responsabilità della sinistra in questa situazione, perché non ha saputo proporre una soluzione di compromesso».
È Mélenchon a non volerlo?
«Mélenchon si è accorto della crescita del partito socialista. Non domina più la coalizione come nel 2022 e questo lo spaventa. Per questo ha scelto una strategia durissima, di guerra totale a Macron, fino a chiederne la destituzione».
Sarebbe possibile?
«No, è una procedura complicata, servono i due terzi dei voti. Mélenchon in realtà vorrebbe che Macron si dimettesse. In questo, i suoi desideri coincidono con quelli di Marine Le Pen, che non lo dice chiaramente ma mira alla stessa cosa».
Per arrivare alle presidenziali prima del tempo?
«E con i consensi ancora alti. Mélenchon e Le Pen sognano un secondo turno faccia a faccia, ma Macron farà di tutto per rimanere al potere».
Lo stop delle politiche al Rassemblement national non ne ha segnato la sconfitta definitiva?
«Il partito di Le Pen ha avuto un grande successo, quasi undici milioni di voti al primo turno. Ma è stato battuto dal cosiddetto fronte repubblicano che ha dimostrato che la maggior parte dei francesi, per il momento, non lo vuole al potere».
Per il momento?
«Il Rassemblement non era pronto per le politiche: ha un programma economico pieno di contraddizioni e un grosso problema di classe dirigente. C’erano moltissimi candidati o quasi fascisti o totalmente incompetenti. Detto questo, Le Pen sta giocando molto bene le sue carte».
Come?
«Il suo partito à stato escluso da tutto in Parlamento e questo le consente di dire: vedete, hanno paura di noi, non rispettano il vostro voto. Contemporaneamente, non alza i toni, si presenta come moderata».
Si è parlato spesso di una sua vicinanza alla Russia, così come vicini agli interessi di Putin sono considerati i partiti estremisti che hanno vinto domenica scorsa in Sassonia e in Turingia. C’è un seme anti-liberale che cresce nelle nostre democrazie?
«Sì, anche se il Rassemblement ha moderato le sue posizioni filorusse che erano considerate inaccettabili in Francia dopo l’aggressione all’Ucraina. Quindi ha condannato la guerra, ma nonostante questo dice che è colpa della Nato, e al Parlamento europeo, quando si tratta di votare mozioni contro Putin, o si astiene o vota contro. L’ambivalenza rimane ed è un grosso problema su cui giocano questi partiti. Come la Lega in Italia e la Afd in Germania: scommettono sulla stanchezza dei cittadini e sperano di ricavarne dei vantaggi».
È solo tattica?
«Di certo c’è anche una forma di attrazione per il modello Putin: nazionalismo e autoritarismo. Chiarissimo sia se guardiamo alla Lega che a Afd».
E Fratelli d’Italia e Rassemblent national?
«Un po’ meno. L’Afd è un partito di filonazisti. Sulla seconda guerra mondiale, invece, Marine Le Pen ha preso una posizione di distanza rispetto a quella del padre. E aveva condannato la proposta di “remigration” – mandare indietro gli immigrati – di Afd, cui era stata invitata ad aderire».
Com’è possibile che nel 2024 dei filonazisti vincano le elezioni regionali in Germania?
«Ci sono diverse spiegazioni: la situazione economica della parte orientale della Germania, anche se adesso ci sono elementi di crescita. La situazione sociale, fatta di diseguaglianze: l’unificazione non ha portato le stesse opportunità per tutti. In questa parte della Germania poi c’è un rifiuto totale dell’immigrazione, anche se ci sono pochi immigrati».
È paradossale.
«C’è una dimensione nazionalista molto forte. L’esperienza del nazismo dal ‘33 al ‘45 e del comunismo dal ‘45 al 1989 non ha creato le migliori condizioni per una cultura democratica in questa parte del Paese. E poi, c’è il trattamento liberista durissimo che è stato fatto ad Est che non ha facilitato l’unificazione».
C’è in tutt’Europa una morsa degli estremismi contro le società aperte che abbiamo costruito?
«Bisogna essere molto prudenti nelle analisi perché tra tutti questi partiti ci sono punti di contatto, ma anche differenze. L’intera famiglia di destra che io chiamo nazionalpopulista al Parlamento europeo non è stata capace di unirsi».
C’è una parte della destra radicale più pragmatica e meno identitaria?
«Sì e questo dimostra una cosa che a volte sottovalutiamo: che la democrazia ha una capacità di acculturazione, di persuasione, che costringe anche partiti con idee estreme ad adattarsi. A rispettare nella maggioranza dei casi le regole democratiche, rigettando la violenza. Questo almeno nei Paesi dove la democrazia è stabilizzata: vale per l’Italia, per la Germania, per la Francia, non per l’Ungheria».
Chi possiamo considerare responsabile di questa crescita degli estremismi?
«C’è un’enorme deresponsabilizzazione dei partiti tradizionali di governo, che invece non possono continuare a giocare solo in difesa contro questi partiti e movimenti. Devono invece al più presto cambiare, combattere la diffidenza nei confronti della politica e il malessere sociale generato dalle diseguaglianze, la precarietà che colpisce soprattutto donne e giovani. Il problema socioculturale dell’immigrazione e della trasformazione profonda delle nostre società pone una domanda di identità che richiede risposte. Bisogna fare una battaglia culturale importante – e non uso a caso la parola battaglia – per dire che tipo di società e di politica vogliamo. Ma non come il calcio all’italiana di qualche anno fa».
Non il catenaccio?
«Esatto, non il catenaccio. Serve una dimensione più offensiva. Poi certo sarà decisivo quello che accadrà in America. Negli Stati Uniti c’è uno scontro frontale tra due concezioni di politica e di società. Quella di Trump chiusa, razzista, durissima. Quella di Harris fondata su un’altra prospettiva. Il voto del 5 novembre sarà decisivo: non ci saranno conseguenze immediate, ma si vedranno presto anche in Europa».
Dopo il 6 gennaio, dopo il ritorno della violenza come arma politica e la promessa di generarne ancora, in caso di sconfitta, da parte di Trump, si può apertamente tifare per lui come fanno la maggior parte dei partiti di destra in Europa?
«Vedo che Orban e Salvini non hanno esitazioni. Meloni e Le Pen mi paiono più prudenti, forse proprio per questo. Ma vedremo se – in caso di vittoria di Trump – correranno a Washington pronte a cambiare anche la loro politica. Di certo, se Trump sarà sconfitto prevedo che a prevalere saranno invece i toni più moderati. Ci sarà, anche in certa destra, il rifiuto della sua retorica violenta e aggressiva: ma solo se si sarà dimostrata perdente».
Nell’immagine: Björn Höcke celebra il trionfo dell’estrema destra in Turingia