Le intelligenze artificiali minacciano gli obiettivi climatici
La crescita delle IA generative sembra incompatibile con gli impegni ambientali – spesso di facciata – delle aziende tech più energivore
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La crescita delle IA generative sembra incompatibile con gli impegni ambientali – spesso di facciata – delle aziende tech più energivore
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La crescita delle IA generative sembra incompatibile con gli impegni ambientali – spesso di facciata – delle aziende tech più energivore
Se è vero che i dati sono il petrolio del ventunesimo secolo, le intelligenze artificiali sono i motori di una rivoluzione straordinaria già in atto. Attenzione, però, agli effetti collaterali. Nei giorni scorsi Microsoft ha firmato un contratto milionario con Occidental Petroleum, uno dei maggiori produttori di petrolio e gas degli Stati Uniti. L’accordo riguarda la concessione di crediti di carbonio, ossia certificati di realizzazione di progetti di sostenibilità per la riduzione o l’assorbimento di gas serra.
Negli ultimi anni, Occidental ha ampliato la sua attività di gestione dell’anidride carbonica, scommettendo sul fatto che intrappolare e immagazzinare il gas serra diventerà sempre più necessario per le grandi aziende che vogliono tener fede alle proprie promesse di neutralità climatica.
Il tema riguarda soprattutto i grandi attori della Silicon Valley, impegnati a perseguire i loro obiettivi climatici nel bel mezzo di un’abbuffata per l’intero settore: l’exploit dell’intelligenza artificiale generativa. Un banchetto gargantuesco al quale tutti i grossi nomi hanno preso parte, con differenze trascurabili solo in termini di tempismo (l’ultima arrivata è stata Apple, che ha deciso di prendersela comoda).
Come noto, i modelli di IA come ChatGPT, Gemini o Claude sono veri e propri moloch in termini di consumi energetici. I numeri parlano chiaro. Microsoft ha ammesso di aver assistito a un aumento delle proprie emissioni di CO2 di quasi un terzo dal 2020, soprattutto a causa della costruzione di data center, che rappresentano una componente centrale per l’addestramento e il funzionamento di Large language model e simili.
Discorso analogo per Google: l’ultimo rapporto ambientale di Mountain View ha rivelato un aumento delle emissioni nel 2023 di quasi il cinquanta per cento rispetto al 2019. Anche in questo caso, le responsabilità sono state attribuite alla crescente domanda di energia sul fronte dei centri di elaborazione dati, esacerbata dalla corsa all’IA.
Lo scorso settembre, Occidental Petroleum ha firmato con Amazon un accordo simile a quello stipulato con l’azienda di Windows, per un totale di duecentocinquantamila crediti spalmati in dieci anni (ogni credito equivale a una tonnellata di CO2 rimossa dall’atmosfera). Un’altra conferma di una tendenza evidente.
Sulla scia del successo di ChatGPT, l’entusiasmo verso la next big thing di quest’epoca ha dato un’iniezione di steroidi alle azioni dei colossi tech. Tutti nell’industria hanno preso parte alla festa e a rimetterci sono stati i buoni propositi di sostenibilità ambientale.
Microsoft aveva promesso di raggiungere lo status di carbon-negative entro il 2030, mentre Google avrebbe puntato allo “zero netto” entro lo stesso anno. Questi impegni sono ufficialmente ancora validi, nonostante siano stati fissati prima dell’hype boom dell’intelligenza artificiale. Le cose tuttavia si sono complicate. La stessa Big G ha recentemente ammesso di avere qualche dubbio al riguardo, sottolineando che «con l’ulteriore integrazione dell’IA nei prodotti, la riduzione delle emissioni potrebbe essere impegnativa». E il termine «impegnativa» sembra un eufemismo.
In questo senso, l’analisi del Google environmental report 2024 offre spunti interessanti. A livello globale, il motore di ricerca più famoso al mondo afferma che circa due terzi della sua energia proviene da fonti rinnovabili. Il documento rivela però una evidente disparità tra i continenti: la maggior parte dei data center europei e americani attinge da fonti prive di carbonio, mentre ciò non vale per le strutture presenti in Medio Oriente, Asia e Australia.
Google, a ogni modo, rappresenta solo la punta di un iceberg gigantesco. Pochi mesi fa il Ceo della multinazionale National Grid, John Pettigrew, ha avvisato che la combinazione di IA e informatica quantistica porterà a un aumento della domanda energetica pari al cinquecento per cento nei prossimi dieci anni.
Non è dello stesso parere Bill Gates, che viceversa ne ha minimizzato l’impatto ambientale. Parlando a Londra, il fondatore di Microsoft ha esortato governi ed associazioni ambientaliste a «non esagerare» con le preoccupazioni energetiche relative al funzionamento dei nuovi sistemi di intelligenza artificiale. Secondo Gates – filantropo e prolifico investitore in aziende specializzate nella riduzione di CO2 – i data center determineranno un aumento dell’utilizzo di elettricità compreso tra il due e il sei per cento.
Cifre tutto sommato trascurabili, dal momento che l’IA contribuirà a sua volta alla riduzione di emissioni, attraverso soluzioni gestionali e tecnologiche potenzialmente rivoluzionarie. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), il consumo totale legato ai data center potrebbe raddoppiare rispetto ai livelli del 2022, raggiungendo i mille terawattora nel 2026, una quantità simile alla domanda energetica del Giappone. Il discorso riguarda anche l’impiego di acqua: uno studio ha stimato che l’IA potrebbe diventare responsabile di circa cinque miliardi di metri cubi di prelievo d’acqua nel 2027 (da 4,2 a 6,6), una cifra superiore all’utilizzo annuo della Danimarca.
Nel frattempo, le Big Tech non hanno alcuna intenzione di frenare la ricerca e gli investimenti nel settore. Proprio per questo motivo si stanno accaparrando contratti di energia rinnovabile, nel tentativo di mantenere la parola data rispetto a obiettivi di decarbonizzazione tanto sbandierati negli anni precedenti. Amazon, per esempio, è il maggiore acquirente di energia pulita al mondo (tralasciate l’ambito e-commerce: il colosso fondato da Jeff Bezos è anche la prima azienda per numero di data center nel mondo).
Il rischio, secondo molti, è che nel breve termine ciò possa spingere le altre realtà energivore verso i combustibili fossili, a causa della scarsità di rinnovabili per tutti. Un dato significativo lo ha fornito il Wall Street Journal, secondo cui i proprietari di circa un terzo delle centrali nucleari statunitensi sarebbero in trattativa con le grandi compagnie tech per fornire elettricità a basse emissioni per i loro server.
Dietro le quinte del settore, intanto, la ricerca tecnologica per ridurre i consumi procede a passo spedito. Già nel 2022 – cinque anni dopo l’avvento dell’architettura transformer, la chiave di volta che ha dato il via alla rivoluzione delle intelligenze artificiali generative – un progetto di DeepMind (Google) ha dimostrato che l’addestramento di questi software poteva richiedere molta meno energia, semplicemente modificando il rapporto tra la quantità di dati immessi e le dimensioni del modello risultante (il concetto alla base del ragionamento prende il nome di Neural scaling law).
La scoperta, per quanto fondamentale, non ha evitato la successiva ondata di richiesta energetica in ambito IA. Niente di nuovo sotto il sole: qualcosa di molto simile era già successo durante la seconda rivoluzione industriale, nella Gran Bretagna del diciannovesimo secolo, quando l’economista William Stanley Jevons osservò che il consumo di carbone era cresciuto dopo l’invenzione del motore a vapore, più efficiente della macchina a vapore di Newcomen. Fu coniato un nome per indicare il fenomeno: paradosso di Jevons. «L’aumento di efficienza si traduce in una diminuzione di costi e, quindi, in un aumento dei consumi». A distanza di un secolo e mezzo, l’enunciato è ancora valido.
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