L’omicidio Floyd, sintesi di un’America divisa
Le varie etnie si fronteggiano a muso duro sul campo di battaglia della società USA, “l’una contro l'altra armate”
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Le varie etnie si fronteggiano a muso duro sul campo di battaglia della società USA, “l’una contro l'altra armate”
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Le varie etnie si fronteggiano a muso duro sul campo di battaglia della società USA, “l’una contro l'altra armate”
Il poliziotto che ha ucciso Floyd, Derek Chauvin; nomen omen direbbero le persone colte. Con un facile esercizio metonimico, il termine sciovinismo (derivato da un altro Chauvin, Nicolas, soldato napoleonico) può infatti trasmigrare – sull’onda dell’attualità – dal significato di patriottismo fanatico a quello, generale, di xenofobia e di razzismo.
Le immagini e l’audio dell’omicidio sono stampati nella memoria di tutti, plastica evidenza della protervia e della violenza cieca; la gamba e il peso sul collo del malcapitato, la mano in tasca come a mostrare la facilità con cui il bianco in divisa rimette al suo posto il “negro” che chiede pietà, implora di poter respirare. Uno sfoggio di violenza sprezzante che rimanda allo schiavismo su cui tanta cultura ed economia wasp hanno costruito il proprio successo, e al razzismo conclamato ed endemico di cui è costellata la storia (anche recentissima, la cronaca) di quella che a loro – e anche a qualcuno di noi – piace definire “la culla della democrazia”.
L’uccisione di Floyd non cambierà gli Stati Uniti, nemmeno un po’; perché quello è un Paese immedicabilmente diviso e in cui il pensiero liberal-capitalista si è innestato, fertilizzandolo, su un confronto, un’incomprensione e un’ostilità irrimediabili tra etnie diverse. Un minimo di consuetudine con quel Paese permette di rendersene conto (nella stessa East Coast, ma in modo flagrante altrove), liquidando ogni speranza di vera unificazione nazionale e facendo giustizia di quella narrazione che vuole gli USA come depositari dell’ideale (e della prassi) dei diritti dell’uomo dopo la dichiarazione di indipendenza (1776); diritti e libertà nati per pochi, e destinati a pochi. Non si dimentichi che l’abolizione della schiavitù arrivò molto dopo (1865) e che non cambiò nella sostanza la posizione degli afro-americani; segregati, discriminati e oggetto di apartheid per almeno un altro secolo (mi viene in mente Rosa Parks, 1955, o le marce da Selma a Montgomery di dieci anni dopo). Il fossato è incolmabile e l’incomprensione tra le diverse popolazioni che abitano il territorio è insuperabile; esse si fronteggiano, a muso duro, sull’implacabile campo di battaglia dell’economia di mercato statunitense, accanto a latini e cinesi, nuovi attori anch’essi in regime di forzata, e poi orgogliosa, separatezza socio-culturale.
Biden fa un po’ tenerezza mentre cerca di cavalcare una sentenza (di primo grado, eh) per immaginare l’impossibile, per dare ad essa una valenza a livello di intera società, o di futuro; non ci crede nemmeno lui, pover’uomo, a questo esercizio retorico di wishful thinking. L’uccisione di Floyd (e degli altri prima e dopo di lui), questo atto di tremenda violenza da parte di un servitore dello Stato – e che si ripete un giorno sì e l’altro pure – è fortemente significativo, oltre che potentemente paradigmatico di una situazione sociale; così, lascerà un po’ di retorica buonista e qualche bel discorso buono per un pulpito, un’elegia funebre o un’elezione, ma non modificherà di un millimetro i rapporti antagonisti che fanno ormai parte della natura profonda di quell’inquietante Paese.
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