Di Simona Siri, La Stampa
«Per quanto si continui a ripetere che la violenza politica è antiamericana e ripugnante, essa fa decisamente parte dello stile di vita e della storia del Paese. Dei 45 uomini che sono stati presidenti nella storia degli Stati Uniti, quattro sono stati assassinati. Solo nel ventesimo secolo ci sono stati almeno sei gravi attentati falliti alla vita di presidenti e due a un ex presidente». A ricordarlo è Matthew Dallek, storico, professore di gestione politica della George Washington University che sta proprio lavorando a un libro sui falliti tentativi di omicidio di presidenti nel recente passato.
Trump vittima di un secondo tentativo di assassinio nel giro di due mesi. Stiamo vivendo un periodo anomalo?
«I tentativi di assassinio di presidenti, ex presidenti e candidati alla presidenza sono una caratteristica abbastanza comune della storia politica americana. Detto questo, penso che gli Stati Uniti siano da dieci anni immersi in una spirale eccezionalmente violenta, sia dal punto di vista politico che retorico che dei fatti. E questo è insolito. Se ammettiamo che la violenza politica assume forme diverse – i fatti del 6 gennaio, l’attacco contro il marito di Nancy Paul Pelosi, i tentativi di omicidio contro Trump – ciò che unisce gli eventi è che il livello di minaccia è aumentato in modo drammatico, e questo ovviamente è di cattivo auspicio per ciò che accadrà dopo le elezioni, qualunque sarà il risultato».
Le immagini col pugno alzato, le magliette con l’orecchio sanguinante: dopo il primo tentativo di assassinio c’è stato se non un uso politico almeno una glorificazione della violenza da parte di Trump?
«Trump si è sempre divertito con il linguaggio violento e anche con la violenza celebrata, tanto da sostenere spesso teorie e cospirazioni che sono avvolte in idee violente. E c’è, credo, un senso di sfida tra molti dei suoi sostenitori: i nemici vogliono distruggerlo, ma lui è la figura consacrata da Dio per difendere il Paese. C’è una mistica della violenza che lui stesso ha alimentato e di cui ne è vittima.
La prova che la violenza genera violenza?
«C’è una ragione per cui si chiamano cicli di violenza. Una volta che una persona commette un atto di violenza, è molto più facile scivolare in un secondo atto di violenza. E c’è violenza anche a sinistra. I critici di Trump lo vedono come una minaccia unica per la democrazia americana, sono toni che possono ispirare persone disturbate ad agire».
Chi ci guadagnerà in termini di voti?
«L’elettorato americano è piuttosto bloccato nei due schieramenti.Potrebbe trarne vantaggio Trump ma anche danneggiarlo. Per alcuni questa potrebbe essere la goccia definitiva: basta con tutto questo, dove per questo si intende un clima di cui Trump è anche responsabile.
I dati dicono che i pericoli maggiori oggi non vengono da gruppi organizzati, ma da singoli individui che agiscono come lupi solitari.
«Dopo il 6 gennaio il governo federale ha fatto molto per smembrare gruppi come i The Proud Boys o gli Oath Keepers, mentre è vero che le forze dell’ordine sono più in difficoltà con singoli individui iper radicalizzati spesso dai social media attraverso teorie del complotto».
I politici, da Biden in giù, che cosa possono fare per cercare di mitigare questo clima di violenza?
«Le parole dei leader contano. Hanno un ruolo importante da svolgere. È importante condannare gli atti di violenza piuttosto che glorificarli o celebrarli. Negli anni Sessanta esisteva una commissione nazionale per studiare le cause della violenza e anche per cercare di prevenirla: ecco, anche queste iniziative possono servire, così come i movimenti politici che si impegnano per la nonviolenza, che si impegnano per gli ideali di Gandhi e di Martin Luther King, magari la volenza non si ferma, ma la si può contenere. Un altro aspetto è il controllo su cosa viene scambiato sui social media, in modo che sia meno facile gridare “al fuoco, al fuoco” in un cinema affollato».
La diffusione di armi incide sulla violenza attuale?
«Assolutamente. Più armi ci sono più è facile che vadano in mano a squilibrati».
Quali sono gli effetti sul processo democratico?
«Uno banale: tenere molte persone valide fuori dalla politica. Se candidarsi a una qualunque carica pubblica diventa pericoloso per me o per la mia famiglia, allora faccio altro. Oppure molti già in politica decidono di lasciarla perché spinti dalla paura. Voglio dire, la violenza può facilmente sostituire le urne. Le due cose sono incompatibili. A volte coesistono fianco a fianco, e potremmo benissimo avere elezioni molto pacifiche il giorno stesso delle elezioni, il 5 novembre. Ma penso che il voto e il proiettile siano una sorta di tensione costante negli Stati Uniti. Spesso prevale il voto, ma non sempre».
Il pericolo di una seconda guerra civile è reale?
«È possibile che le divisioni continuino a peggiorare e che ci sia più violenza, ma non ne parlerei in termini di Guerra Civile intesa in senso storico. Allora una parte del Paese voleva rendersi indipendente, oggi ciascuna parte vuole dominare l’altra, vuole che tutto il paese si pieghi ai suoi valori. Piuttosto che un tentativo di secessione, è una lotta sul tipo di America, su che cosa significa essere americani».
Nell’immagine: l’assalto a Capitol Hill