Di Sandro Benini, Tages Anzeiger
Non è facile incontrare Franco Cavalli. Prima è assente per un progetto in Kirgizistan, poi deve organizzare il World Oncology Forum sul Monte Verità, poi il Nicaragua, e infine le vacanze in Grecia. Ma tra un appuntamento e l’altro si ferma a casa per qualche giorno. Evidentemente l’oncologo e già Consigliere nazionale del PS non si è messo a riposo nonostante i suoi 81 anni.
Cavalli è una delle figure determinanti della storia recente della socialdemocrazia svizzera. In qualità di esponente dell’ala più a sinistra del partito, ha fatto parte del Consiglio nazionale, nel PS, per dodici anni ed è stato capogruppo dal 1999 al 2002.
Cavalli si è guadagnato una grande reputazione come oncologo, ed è riconosciuto come uno dei principali ricercatori sul cancro al mondo. Dal 2001 al 2004 è stato presidente della Lega svizzera contro il cancro e tra il 2006 e il 2008 è stato presidente dell’Union internationale contre le cancer. Cavalli è tuttora presidente della Fondazione dell’Istituto oncologico di ricerca di Bellinzona. In aprile è stato premiato dall’Associazione americana per la ricerca sul cancro per il lavoro scientifico svolto nel corso della sua vita.
Incontriamo Cavalli a Bellinzona, nell’ufficio del Soccorso operaio svizzero.
Signor Cavalli, da oncologo lei ha visto morire molte persone. Ha sempre detto loro la verità?
Sono contrario alla cultura americana, secondo cui bisogna sbattere in faccia al paziente la piena verità diagnostica, in stile: “La probabilità che lei muoia tra sei mesi è del novantacinque per cento”. Ogni essere umano ha diritto a una piccola speranza.
Anche quando non c’è più speranza?
Le prognosi oncologiche si basano sulla statistica. Nel singolo caso concreto sei mesi possono diventare anche tre oppure diciotto mesi. Magari la paziente che si trova di fronte a me rappresenta una eccezione, forse lotterà così strenuamente da vivere più a lungo di quanto mi sarei aspettato. Come oncologo, si dovrebbe comunque sempre attendere che sia il paziente a chiedere. Non ha senso imporre una consapevolezza per la quale non si è ancora pronti. Quando il paziente mi pone delle domande, devo essere assolutamente sicuro che poi capisca tutto correttamente. Ma anche nei casi più difficili, è sufficiente il novanta per cento della verità, non è necessario il cento per cento.
Ha già vissuto delle guarigioni in qualche modo «miracolose»?
Grazie ai progressi della medicina, anche senza miracoli, ci sono molti tipi di cancro un tempo assolutamente fatali, che oggi sono curabili. Nel caso di cancro ai testicoli in un giovane paziente, per esempio, il medico può affermare con la coscienza pulita che c’è ancora la possibilità di vincere il Tour de France, come ha fatto Lance Armstrong dopo la sua diagnosi. Anche il cancro al seno oggi nella maggior parte dei casi è curabile. Ma per rispondere alla sua domanda: sì, mi è successo di vivere delle esperienze straordinarie.
Ce le racconti.
Quando ero ancora consulente senior a Berna, seguivo una paziente di circa trent’anni che soffriva di un tumore osseo, un sarcoma. Aveva metastasi nei polmoni e a un certo punto dovetti dirle: purtroppo non c’è più nulla da fare. La sua aspettativa di vita era di circa sei mesi. Mi chiese se avrebbe potuto comunque venire a trovarmi una volta al mese, perché si fidava di me. Dopo due o tre mesi mi accorsi che la sua dispnea era quasi scomparsa. Le feci fare una radiografia. Le metastasi nei polmoni erano molto più piccole, evidentemente c’era stata una regressione spontanea.
Ma non era guarita?
No. Ma non è morta dopo sei mesi, bensì dopo tre anni. Di tanto in tanto si verificano delle regressioni spontanee, ad esempio quando una malattia virale scatena una forte reazione del sistema immunitario e gli anticorpi attaccano anche le cellule tumorali. Una guarigione spontanea veramente definitiva da un cancro avanzato è molto, molto rara, se mai si verifica. Non ho mai sperimentato nulla di simile.
Non è mai nemmeno successo che una visita a Lourdes o da un guaritore abbia avuto degli effetti verificabili a livello clinico?
No.
Cosa ne pensa del trattamento del cancro anche con la medicina complementare?
La medicina complementare presenta due problemi. Alcuni pazienti si affidano troppo a lungo solo alla medicina complementare fino al punto in cui è troppo tardi per intervenire con quella tradizionale, o comunque questa è meno efficace.
E l’altro problema?
Si presenta quando le persone fanno delle cose veramente folli e pericolose, come bere olio o digiunare per intere settimane. A parte questo, alle mie pazienti e ai miei pazienti ho sempre detto: se sentite che le misure di medicina complementare vi aiutano, usatele. In un certo senso, queste cose possono davvero essere utili.
Molte delle sue colleghe e molti dei suoi colleghi probabilmente non sarebbero d’accordo con lei.
Oggi non ne sarei tanto sicuro.
Perché?
La cosa peggiore per i malati di cancro è quando diventano depressi. Quando dicono che comunque non c’è speranza e vogliono arrendersi e smettere di lottare. I risultati migliori li ho sempre ottenuti con le pazienti e i pazienti che avevano un atteggiamento positivo nei confronti della terapia. Già solo perché così si possono affrontare meglio gli effetti collaterali dei farmaci. Se la medicina complementare ha contribuito a creare un atteggiamento più positivo, ciò si è riverberato in modo positivo anche per me, oncologo curante.
Ma questo equivale ad ammettere che la medicina complementare ha al massimo una sorta di effetto placebo.
Non ne darei questa definizione così dispregiativa. Mi sono perfino impegnato affinché ad esempio l’agopuntura fosse pagata dalle casse malati, poiché ha un effetto anche in senso strettamente fisiologico.
Un giovane o una madre con dei bambini piccoli che muoiono in poco tempo: dopo esperienze tanto toccanti la sera riusciva a tornare a casa e a godersi la famiglia?
Facevo fatica. Soffrivo a causa di quei destini, di notte pensavo spesso alle pazienti e ai pazienti e mi chiedevo: ho fatto tutto nel modo giusto? Cos’altro potrei fare? È anche per questo che un anno fa ho smesso di vedere pazienti: per dormire meglio.
Le è mai successo che una o un paziente le muovessero dei rimproveri?
Molti malati di cancro gravi attraversano una fase in cui si ribellano e cercano qualcuno da incolpare. Ma di solito la colpa è del medico di famiglia, secondo il motto: se avesse individuato prima il tumore, le cose sarebbero andate diversamente. Il 40% dei tumori è causato da comportamenti malsani, dal fumo, dalla mancanza di esercizio fisico, dalle tossine ambientali e da una dieta squilibrata.
Circa il tre per cento dei casi sono determinati geneticamente. Il resto è semplicemente una coincidenza, una mutazione delle cellule che si rivela maligna. Quello che ho sentito spesso sono rimproveri rivolti alla medicina nel suo insieme: senta un po‘, io non fumo e non bevo e pratico sport, come consigliate sempre voi medici – ma nonostante ciò ho un cancro, mi avete mentito! Queste frasi le ho sentite spesso.
Nonostante i tanti terribili destini individuali, il cancro ha qualcosa che assomigli a un significato evolutivo-biologico?
No. Ma il cancro non è nemmeno una minaccia per la specie umana, a differenza delle infezioni che, da un punto di vista biologico, in casi estremi potrebbero diventare davvero devastanti su scala globale. Questo spiega perché la nostra autodifesa contro il cancro è molto più debole di quella contro le infezioni. I casi di cancro aumentano con l’età, la maggior parte dei tumori si manifesta quando abbiamo superato la fase riproduttiva.
In quale misura è cambiato il suo atteggiamento nei confronti della morte, dopo avere visto morire tante persone?
Io non ho vissuto solo la morte di pazienti. Nel 1990 ho perso un figlio. È annegato nella Maggia a quattordici anni.
Non sapevo, mi dispiace.
L’avere superato questo evento dopo uno o due anni, mi ha dato anche una grande forza. Mi ha tolto la paura della mia stessa morte. Oggi penso: bene, se lui ha dovuto attraversare questa cosa, allora è normale che a un certo punto toccherà anche a me.
Lei dice di avere superato la morte di suo figlio. Cosa significa concretamente? Quanto spesso pensa a lui?
Quasi ogni giorno. Essere riuscito a superare la sua morte significa riuscire a vivere senza antidepressivi. E fare incubi solo raramente.
E tutto questo come ha cambiato il suo atteggiamento di fronte alla morte di pazienti ammalati di cancro?
Dopo la morte di mio figlio ho ripreso a lavorare appena una settimana più tardi. Può sembrare strano, ma mi sono detto: la morte mi ha preso mio figlio, e io esercito un mestiere in cui il più grande nemico è la morte. Il cancro è la malattia che uccide così tante persone? Allora mi sento ancora più spronato a combatterla con tutti i mezzi a mia disposizione.
Questo dramma del destino, i molti malati, la sua età avanzata: questi potrebbero essere motivi per diventare religiosi.
Credo non vi sia altro che materia, viviamo in un universo infinito e senza senso, moriamo e basta. Non è facile pensare in questo modo. Un giorno rivedrò mio figlio nell’aldilà: questo pensiero mi sarebbe stato di grande conforto in quel momento. Ma non ci credo.
Non vi è mai stata nessuna esperienza che ha fatto vacillare il suo ateismo?
No, al contrario. Mia madre era molto religiosa, una donna semplice, che conosceva poco l’italiano e quindi parlava quasi solo in dialetto ticinese. Io sono cresciuto ad Ascona, e lei mi diceva sempre: non andare mai sul Monte Verità! Là, infatti si trovavano le artiste nude e Sinnsucher (ndt: ‘cercatori di significato’). Mia madre era una commessa, mio padre un contabile. I soldi non bastavano per mandarmi al liceo a Lugano. Perciò andai in una scuola media gestita dai Benedettini, gratis per i bambini di Ascona. Alcuni compagni erano di buona famiglia, e quando in inverno partivano a sciare, io dicevo sempre che lo sport non mi piaceva. In realtà i miei genitori avevano troppo pochi soldi per comprarmi l’attrezzatura da sci.
E poi?
All’epoca, a tredici o quattordici anni, ero piuttosto religioso. Ma vedevo come i benedettini picchiavano i miei compagni di classe con un righello o li punivano in altri modi per lo scarso rendimento. A me non succedeva, perché i miei voti erano buoni. Al mattino chiedevano sempre se immaginassimo le ragazze nude e se in seguito qualcosa si muovesse tra le nostre gambe: in caso affermativo, si trattava del diavolo. L’educazione era molto repressiva e una volta un insegnante fu arrestato per pedofilia. Passò una notte in prigione, dopodiché la Chiesa lo mandò in Argentina e gli trovò un nuovo lavoro. La mia fortuna è stata quella di non dovere dormire in quella scuola. In ogni caso, queste esperienze hanno avuto un ruolo importante nel farmi abbandonare il mio credo religioso.
Perché è diventato oncologo?
Da giovane volevo diventare giornalista, ma mio padre mi disse che dovevo studiare qualcosa di serio per poter un giorno mantenere la mia famiglia. Data la povertà in cui ero cresciuto, il suo consiglio aveva un che di urgente. Per me tre possibilità: ingegnere, avvocato o medico. Non amavo abbastanza la matematica per fare l’ingegnere e l’avvocato era troppo disdicevole per me, soprattutto in Ticino. Così rimaneva medicina. Studiai quindi all’Università di Berna, perché mia madre mi disse: “A Zurigo, dove c’è un covo di peccatori come Niederdorf, tu non ci vai”.
Sua madre era tanto influente sebbene lei fosse un giovane adulto?
Mi amava alla follia. Non potevo deluderla.
E come andò avanti?
Dopo la laurea in medicina, iniziai la specializzazione in psichiatria. Sono stato influenzato dal movimento antipsichiatrico e da slogan come: “La rivoluzione comincia nei manicomi”, come si diceva all’epoca. Dopo due anni e mezzo di studi in psichiatria, dovetti fare un anno di medicina interna. In qualità di assistente mi ritrovai anche in un reparto di oncologia. Incontrai un medico di nome Kurt Brunner, mio grande mentore. Era il fratello di Lilian Uchtenhagen, che nel 1983 sarebbe dovuta essere la prima donna a diventare Consigliera federale. Brunner mi disse: “Il tuo cuore batte per le scienze dure. Ma la psichiatria è una scienza morbida. Allo stesso tempo sei interessato alla politica e alla società, l’oncologia è la cosa migliore per te”.
Evidentemente Brunner aveva ragione.
Naturalmente aveva ragione. Il cancro non è solo un male medico, ma anche sociale. Un tempo i malati di cancro erano stigmatizzati e le terapie per il cancro sono costose. Il modo in cui ci si occupa delle persone, povere o ricche che siano, ha una dimensione politica. Il mio studio di psichiatria, abbandonato dopo soli tre anni, più tardi nella vita mi ha aiutato nelle conversazioni con le e i pazienti. Uno psichiatra deve saper ascoltare. Anche una oncologa o un oncologo dovrebbero saperlo fare, ma molti non ci riescono.
Oltre alla medicina e alla politica, cos’altro è importante per lei?
La famiglia. Ho quattro figli biologici, uno dei quali è morto, e quattro adottati, due dalla Colombia e due dal Nicaragua. Ormai sono tutti adulti. Ho undici nipoti e da poco un pronipote. Mia madre ha sempre sofferto il fatto di avere solo due figli, che per l’epoca erano pochi. I sessantottini se la prendevano spesso con le famigliole borghesi, mentre, per contro, idealizzavano le comuni con tanti bambini. Anch’io ho vissuto in una comune per un qualche tempo, ma poiché mi sono sposato presto, ho avuto un figlio e ho iniziato a lavorare, l’ho presto lasciata. Forse la mia decisione di creare una famiglia numerosa è dovuta anche alla mia nostalgia della comune.
Lei è un oncologo di fama mondiale, ha una famiglia numerosa ed è stato consigliere nazionale del PS per più di dieci anni, ricoprendo anche il ruolo di presidente del gruppo parlamentare dal 1999 al 2002. Si dice che Christoph Blocher dorma solo quattro ore a notte. In questo senso ha qualcosa in comune con lui?
Al contrario, siamo completamente diversi anche sotto questo aspetto. A me piace dormire. Se non metto la sveglia, mi sveglio alle nove meno un quarto. Ma vado a letto relativamente tardi, poiché di solito la sera leggo. In ogni caso, il triplice fardello cui accennava prima, sì, mi rendeva stanco. Col senno di poi, devo ammettere di non essere stato un buon capogruppo parlamentare.
Perché?
Perché abitavo in Ticino e non ero solo capogruppo, ma anche primario, perché semplicemente non avevo abbastanza tempo per leggere dossier e rapporti, perché ero troppo stanco per prepararmi alle sedute. Alle nove del mattino chiamavano i giornalisti: “Cosa ne pensa di questo e di quello?” “Sto facendo il giro dei pazienti in questo momento, può richiamarmi tra tre ore?” Un periodo folle.
Inoltre, in qualità di capogruppo parlamentare, si dovrebbero coltivare i rapporti con l’apparato amministrativo per spingere i propri uomini, ma non faceva per me. Ecco due motivi per cui ho lasciato il ruolo di capogruppo del PS. Il terzo è stato la crisi attorno all’allora presidente del partito Ursula Koch, scomparsa da un giorno all’altro senza lasciare traccia.
Si dice che, durante il suo periodo di presidenza del gruppo parlamentare, lei abbia combattuto battaglie epiche con Ursula Koch.
Non la metterei così. Quello che apprezzavo di Ursula Koch era che esprimesse sempre la propria opinione. Purtroppo, Koch non era un membro del Consiglio nazionale. La posizione di presidente di partito è posizione difficile quando si è fuori dal Parlamento.
Ursula Koch e io eravamo entrambi considerati di sinistra, ma le sue persone di fiducia all’interno del gruppo parlamentare erano più di destra. Ad esempio Rudolf Strahm, che non ha mai superato il fatto di aver perso le elezioni per la presidenza del gruppo parlamentare contro di me nel 1999. Questo ha portato a delle tensioni tra me e Koch, anche se a livello personale andavamo d’accordo. Il suo grande nemico all’interno del partito però non ero io, bensì Jacqueline Fehr. Lei e Koch litigavano sempre. Ammetto che c’erano delle divergenze anche con me, soprattutto sulla politica estera.
Per esempio?
Da antiimperialista ero e resto critico verso gli USA e la Nato. Mi opposi all’intervento militare in Serbia, mentre Ursula Koch era favorevole. Ci siamo perfino confrontati sulla questione in tv, ad «Arena».
Come ha vissuto la sua scomparsa?
Avevamo una riunione dell’esecutivo del partito ed eravamo tutti in attesa della presidente. Ma al posto di Ursula Koch si presentò la consigliera nazionale zurighese Vreni Müller-Hemmi, cara amica di Ursula Koch. Ci consegnò una lettera in cui la Koch annunciava le sue dimissioni immediate. Eravamo tutti sconvolti. Da allora non l’ho più vista.
Cosa è successo dopo le dimissioni di Koch?
Per prima cosa abbiamo costituito un’unità di crisi costituita da me, Ruth Dreifuss e Christiane Brunner. Come capogruppo parlamentare, ho poi guidato il PS per circa sei o otto mesi, un paio di volte ho avuto l’opportunità di diventare presidente. Mi sarebbe piaciuto farlo, ma poi avrei dovuto smettere di lavorare all’ospedale, e per me era fuori discussione. Sono un animale politico, ma il mio lavoro di medico è sempre stato al primo posto. In ogni caso, all’epoca ero la figura più popolare del PS, cosa che non piaceva affatto a Christiane Brunner. Cominciò a escludermi dai processi decisionali politici. Mi sono quindi dimesso dal Consiglio nazionale nel 2007.
E non ha idea di dove possa trovarsi oggi Ursula Koch? Nemmeno qualche voce di corridoio?
No, nessuna idea, non ne ho la minima idea.
Le dispiace?
Certo. Ursula Koch era una donna molto intelligente e dinamica. Ma non era facile andarci d’accordo. Non era per niente diplomatica.
Dopo le sue dimissioni dal Consiglio nazionale, lei ha definito il PS un “pigro partito di funzionari”. Un’affermazione tutt’altro che elegante.
L’ex procuratore pubblico ticinese e membro del Consiglio degli Stati del PLR Dick Marty, purtroppo scomparso di recente, una volta disse che avrei potuto diventare Consigliere federale se a Berna fossi stato più diplomatico. Ma io semplicemente non ci riesco. E confrontando il PS di oggi con quello di allora, si vede come avessi ragione. Anche se il PS di oggi, ovviamente si sta del tutto sbagliando in termini di politica estera. È quasi dipendente dalla Nato.
Al PS rimprovera anche di occuparsi troppo di questioni come il genere, il post-colonialismo e la correttezza linguistica?
Non sono contrario a occuparmi di tali questioni, ma questo non può certo essere il compito principale di un partito di sinistra.
Bensì?
Rappresentare le lavoratrici e i lavoratori, la classe media inferiore, i genitori single, il cosiddetto precariato. Le famiglie che dipendono da alloggi a basso costo e i pensionati che dipendono da prestazioni integrative, altrimenti il rischio è che tutte queste persone migrino verso l’estrema destra. Storicamente succede con regolarità. In termini di politica sociale, la maggioranza delle persone in Svizzera tende a pensare a sinistra. Per la socialdemocrazia tradizionale questa è un’enorme opportunità, che però non viene sfruttata abbastanza.
Nel 2011 è quasi tornato sulla scena politica nazionale come membro del Consiglio degli Stati.
All’epoca mi mancavano circa settecento voti per diventare il primo membro di sinistra del Consiglio degli Stati nella storia del Canton Ticino. Ma poiché in precedenza si era ritenuto che non avessi alcuna possibilità di farcela, un consigliere di Stato del PS dell’epoca esortò elettrici ed elettori a votare a favore del candidato del PLR – e questo al fine di evitare il candidato dell’UDC. Circa duemila sostenitori del PS seguirono quella raccomandazione.
L’ha fatta arrabbiare?
Ero molto arrabbiato. Soprattutto perché la colpa di quella sconfitta di così stretta misura era del mio stesso partito.
È ancora attivo politicamente?
No, ora non più, ma fino a poco fa ero nel Consiglio comunale di Ascona.
Le sarebbe piaciuto diventare Consigliere federale?
Sì. Avrei perfino rinunciato al mio posto di primario.
Lei afferma di non temere la morte. Di cosa ha paura?
Il filosofo italiano Antonio Gramsci diceva che è meglio essere pessimisti con l’intelligenza, ma ottimisti con la volontà. Per natura io tendo a essere ottimista. Ma ho molta paura che gli Stati Uniti provochino la terza guerra mondiale attaccando militarmente la Cina. Le élite statunitensi hanno paura di venire soppiantate dalla Cina come prima potenza economica mondiale. Già lo storico greco Tucidide riconosceva come in simili situazioni la guerra fosse quasi inevitabile. Questo pericolo è tanto più grande in quanto gli Stati Uniti sono ancora molto più forti militarmente di qualsiasi altro Paese al mondo.
Ci sarà una guerra tra Cina e Stati Uniti solo se la Cina tenterà di conquistare militarmente Taiwan.
Storicamente, la Cina è sempre stata piuttosto pacifica, a differenza del Giappone, per esempio. Dubito quindi seriamente che attaccherà militarmente Taiwan. La mentalità cinese, semmai, è quella di conquistare il mondo economicamente, non militarmente. La Cina gestisce una sola base militare al di fuori del proprio territorio, mentre gli Stati Uniti ne gestiscono circa ottocento. E l’elenco delle guerre iniziate dagli Stati Uniti è molto lungo, solo negli ultimi trent’anni in Serbia, due volte in Iraq, in Afghanistan, in Libia e altrove.
I tibetani e gli uiguri non descriverebbero di certo la Cina come una potenza pacifica. Le sue parole parlano del tipico antiamericanismo della vecchia sinistra. Si possono accusare gli Stati Uniti di molte cose, ma se poi si negano tutti i meriti storici che il Paese si è guadagnato – soprattutto in Europa, e ripetutamente – si diventa inaffidabili.
Non credo nemmeno per un secondo che gli Stati Uniti abbiano mai iniziato una guerra solo per difendere la democrazia. Questo non ha nulla a che fare con l’antiamericanismo.
Ma da dove viene questa ossessione della vecchia sinistra di banalizzare o addirittura difendere regimi disumani come quelli di Cina, Venezuela o Cuba? Jean Ziegler è contagiato dallo stesso virus.
Non sto banalizzando nulla, ma cerco di essere obiettivo e di non diventare vittima della propaganda della CIA. Non si può discutere seriamente l’argomento Cina in poche frasi. In ogni caso, il fatto che il governo cinese abbia tolto dalla povertà circa ottocento milioni di persone non mi lascia indifferente.
Le sue visioni di politica globale sono ormai considerate del tutto insostenibili anche all’interno del PS. Cédric Wermuth non parlerebbe mai così.
Lo so, è per questo che mi scontro con lui. Proprio come con Fabian Molina, che siede nel consiglio di amministrazione dell’Alleanza interparlamentare sulla Cina, un’organizzazione finanziata da fondazioni di destra negli Stati Uniti. Il PS dovrebbe tornare a occuparsi seriamente dell’imperialismo.
A parte questi approfondimenti internazionali, qual è l’esperienza più importante che ha fatto nella sua vita politica?
In definitiva, è un’esperienza negativa. Nel Parlamento federale ho spesso cercato di argomentare in modo scientifico, come sono abituato a fare nella mia professione. Nel farlo, mi sono ripetutamente reso conto di come gli interessi materiali fossero molto più importanti della questione se una proposta fosse oggettivamente giusta o sbagliata. Come marxista, avrei dovuto saperlo; il buon vecchio Karl Marx ha sempre detto proprio questo. Purtroppo, tendo a cadere preda di un certo idealismo.
Come sarà ricordato?
Gli unici veri progetti per il futuro che il Canton Ticino ha sono l’Università di bio medicina, le start-up e i centri di ricerca. Credo di aver dato un contributo significativo al loro sviluppo. Questo rimarrà.
E sebbene abbia combattuto molte battaglie politiche nella mia vita, non ho nemici personali. Perfino gli avversari politici ammettono che, almeno Cavalli non ha mai rinnegato i suoi ideali, come molti, che in gioventù erano di sinistra e poi si sono spostati sempre più a destra con l’età. Perché a destra si fanno più soldi. Tutti sanno che in ospedale limitavo il mio stipendio e che i soldi che guadagnavo curando i pazienti privati andavano sempre all’ospedale. Credo che di me resterà il ricordo della schiettezza personale e politica.
Cosa le dà speranza?
Due cose. Il fatto che probabilmente presto faremo grandi progressi nella diagnosi precoce di molti tipi di cancro, il che migliorerebbe notevolmente la curabilità del cancro. E la vista dei miei sette figli e dei miei dodici nipoti.
Traduzione a cura di Simona Sala
Nell’immagine: Franco Cavalli