Misteriosa o pragmatica, l’imprendibile Kamala Harris alla prova della realtà
Il ritratto. A volte contraddittoria, i trumpiani la bollano come opportunista mentre per i suoi è realista: solo se sarà eletta rivelerà al mondo la sua vera natura
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Il ritratto. A volte contraddittoria, i trumpiani la bollano come opportunista mentre per i suoi è realista: solo se sarà eletta rivelerà al mondo la sua vera natura
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Il ritratto. A volte contraddittoria, i trumpiani la bollano come opportunista mentre per i suoi è realista: solo se sarà eletta rivelerà al mondo la sua vera natura
CHICAGO — Il 24 agosto del 1960, vigilia di campagna elettorale per la Casa Bianca, il reporter del settimanale Time, Charles Mohr, chiese al presidente repubblicano Dwight Eisenhower: «Che idee le ha dato, in otto anni, il suo vice Richard Nixon?». La risposta fu brutale, subito rilanciata dai democratici di John Kennedy, «Se mi dà una settimana per pensarci qualcosa mi verrà in mente». Il vicepresidente di F.D. Roosevelt, John Nance Garner, detto Cactus Jack per le battutacce texane, considerava la carica «peggiore di una sputacchiera». Non ascoltate dunque il bla bla su quel che Kamala Harris, da ieri notte chiamata a sfidare il repubblicano Donald Trump, ha fatto o non fatto da vice del decano Joe Biden, l’argomento vale quanto il desueto oggetto evocato da Cactus Jack.
Con più eleganza, i cappellucci degli stand di Chicago sintetizzano Harris in “,LA”: Comma vuol dire virgola e “Commala” è la pronuncia corretta del nome, irrisa da Trump in grossolane distorsioni. “,LA” ha, ad oggi, appena 73 giorni per farsi conoscere dai 161 milioni di elettori registrati con la storica decisione di mandare, per la prima volta dal 1776, una donna al potere.
Kamala Harris ha rotto tanti tabù, prima donna e prima afroamericana District Attorney a San Francisco, prima Ministro della Giustizia in California, prima donna di colore senatrice dello stato, solo la seconda della storia alla Camera Alta. A chi la incontra nella residenza ufficiale, il Naval Observatory di Washington, Harris riserva una gag maliziosa: «Ho avuto 48 predecessori vicepresidenti, tutti maschi bianchi», anche se i puristi dell’Almanac of American Politics registrano zelanti «Charles Curtis, vice di Herbert Hoover nel 1929, era per 3/8 Nativo-Americano».
Da sempre Kamala Harris, 59 anni, papà giamaicano, mamma emigrata dall’India, studiosi a Berkeley University caparbi e presto divorziati, ha eluso le definizioni, laureata all’ateneo storico degli afroamericani, Howard University, un flirt lungo due anni con il controverso sindaco di San Francisco Willie Brown, invano contestato da Trump, la carriera in magistratura, divisa tra voglia di apparire Law&Order, dura contro i criminali, e liberal capace di comprendere come povertà e discriminazioni nei ghetti riempiano le galere: i neri sono il 12% della popolazione e il 32% dei detenuti.
Nel libro Smart on Crime, pubblicato nel 2010, Harris minimizza il razzismo della polizia, scrivendo «è idea diffusa che le comunità povere, in particolare afroamericane e ispaniche, considerino le forze dell’ordine il nemico. In realtà, è vero il contrario, i non abbienti sostengono i poliziotti», salvo mutare parere dopo le proteste 2020 per l’assassinio di George Floyd, strangolato dell’agente Chauvin a Minneapolis: «Troppi uomini e donne neri disarmati vengono uccisi in America. Troppi americani neri e latini incarcerati. La nostra giustizia penale ha bisogno di drastiche riforme».
Non chiedetevi dunque quale “,LA”, Kamala Harris, vedrete, se eletta, alla Casa Bianca. Dipenderà dalle circostanze, dura ove necessario, disposta ai compromessi se occorresse. I trumpiani le daranno dell’opportunista, lo staff parla di pragmatismo, ma da George Washington a Joe Biden dove passa la differenza?
In certi comizi Harris citerà quando «da bambina, a Palo Alto, culla di Google, non mi lasciavano giocare con i figli dei vicini perché nera». In altri la dichiarazione ferma del 2021 in Guatemala contro l’emigrazione: “Non venite in America! Gli Stati Uniti applicheranno la legge e difenderanno i confini». Sentirete citare i templi Hindu della mamma e la fede cristiana battista, il marito ebreo Doug Emhoff e la necessità di tregua a Gaza con i palestinesi, l’umiliazione di andare nelle scuole dei bianchi con il bus dei neri, l’orgoglioso «sono nera e asiatica, che bellezza una famiglia multietnica!».
Il mistero Kamala Harris durerà se perdesse le elezioni, altrimenti la presidenza, spietata Macchina della Verità che invecchia chi la occupa, vedi canizie di Clinton e Obama, ne rivelerà l’identità senza appello. Tra i palloncini bianchi, rossi e blu di Chicago, inni, feste, militanti si è consumata la festa, ora parte la guerra di idee e di interessi. Al Cremlino, Pechino, nei bunker di Gaza, a Pyongyang, in Turchia, sulla frontiera Israele-Libano il discorso di “,LA” è stato dissecato senza moine da influencer o algoritmi di TikTok, con feroce stima di forza e carattere: saprà reagire questa donna alle nostre offensive? La risposta non ce l’ha, per ora, nessuno, neppure Kamala Harris, verrà dal test ferreo della realtà. Venti anni fa il Los Angeles Times definì Harris “Barack Obama in California”, vedremo se del mentore manterrà l’incertezza davanti al mondo terribile del XXI secolo o se invece, sciogliendone le ambiguità Nobel, saprà unire la diaspora degli alleati e opporsi all’insorgenza totalitaria.
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