Nell’arena al cospetto degli dei, di Gesù (e della TV)
Vincitori e vinti secondo Pindaro, Paolo di Tarso e De Coubertin: qual è il traguardo essenziale nello ‘sport’ e nella vita?
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Vincitori e vinti secondo Pindaro, Paolo di Tarso e De Coubertin: qual è il traguardo essenziale nello ‘sport’ e nella vita?
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Vincitori e vinti secondo Pindaro, Paolo di Tarso e De Coubertin: qual è il traguardo essenziale nello ‘sport’ e nella vita?
E ai Filippesi, pure loro abituati ai giochi agonistici: “corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Gesù Cristo”. A Timoteo dice che “l’esercizio fisico è utile a poca cosa, la pietà a ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella futura”.
Non c’è compatibilità fra il cristiano Paolo e l’ellenico Pindaro che proclama la vittoria a Olimpia “splendente come l’oro e il sole, preziosa come l’acqua”.
Ma, ricorda lo stesso Paolo, “uno solo vince”. Ecco una prima grande cesura fra cristianesimo e “paganesimo” greco: per i greci non esiste il podio, e men che meno il recente “diploma olimpico” assegnato ai primi 8. Pindaro ne sarebbe inorridito, per lui il secondo posto equivale a un’umiliazione: ecco come descrive il ritorno a casa degli sconfitti a Olimpia: “ per vicoli obliqui (nascosti) schivando i nemici s’acquattano morsi dalla sventura. Né presso la madre un dolce riso suscita letizia”. Persino la madre li rimprovera a muso duro.
Siamo molto vicini al vae victis del ‘barbaro’ Brenno (guai ai vinti) pronunciato al cospetto dei Romani che dovevano pagare in oro il prezzo della sconfitta, e che pretendevano di trattare il riscatto.
Allo spietato Pindaro si contrappone il concetto della “partecipazione” attribuito a Pierre Fredy de Coubertin, in realtà espresso dal vescovo della Pennsilvania Ethelbert Talbot al seguito gli atleti americani a Londra nel 1908. Aveva assistito all’ indegna gazzarra fra i suoi ragazzi e gli inglesi in uno dei tanti “sport” scemi apparsi alle Olimpiadi, il tiro alla corda , superato solo da una gara di nuoto a ostacoli nella Senna (Parigi 1900) dove si trattava di passare anche attraverso bidoni appesi a filo d’acqua. In un sermone tenuto nella cattedrale di S. Paolo a Londra, Talbot afferma che “essersi battuti con onore conta più della vittoria”.
Si dimentica che la ‘partecipazione’ ai Giochi Olimpici è riservata a una ristretta élite al termine di una dura selezione: chi vince è un primus inter pares, un primo fra gente di uguale rango e valore. Il povero Pierre Fredy, uno dei grandi dell’umanità tra i più falsificati, ha cercato invano di liberarsi da questo stupido luogo comune appoggiandosi al frate domenicano Henry Didon e al suo citius, altius, fortius – più veloce, più in alto, più forte (vedi qui Il frate “liberale” e i Giochi Olimpici di Silvano Toppi).
De Coubertin lo ribadisce in opposizione all’”Emilio” di Rousseau, che vorrebbe limitare l’esuberanza giovanile attraverso l’educazione: “l’atleta non sarà mai moderato, deve godere della libertà dell’eccesso, deve puntare a battere i primati inducendo i rivali a crescere nel tentativo di emularlo”.
De Coubertin come Omero quando dice che “bisogna tendere alla perfezione per diventare migliore degli altri”, come il mitico centauro Chirone, precettore di Achille “Piè veloce”: “essere sempre primo e il migliore”.
È il dogma del nostro tempo che vive di concorrenza spietata e che “taglia” i più deboli a scuola e nella vita come vengono “tagliati” (the cut) i giocatori di calcio meno bravi o meno adatti (a vincere, a far soldi), inducendoci ad applicare la legge dei gladiatori romani: mors tua, vita mea.
Uno spiraglio, una consolazione, forse, ci giunge da Platone: “la vittoria che uno riporta su se stesso è la prima e più nobile vittoria “; dal “Dhammapada” buddista: “la vittoria su se stessi è la massima vittoria, ha molto piú valore che soggiogare gli altri”; dai “Proverbi” della Bibbia: “chi domina se stesso vale più di chi conquista una città”. Ma chi viene massacrato, come gli ebrei prima, ora in rapporto 1-20 come i palestinesi a Gaza, se sopravvive non ha piú nemmeno la possibilità di riportare la vittoria intima, di crescita, troppo umiliato e privato di ogni umanità.
Per noi fortunati, essenziale sarebbe evitare la passività, l’ignavia, condannata da Dante:
“questi sciaurati che mai non fur vivi,
la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidiosi son d’ogni altra sorte,
non ti curar di lor ma guarda e passa.
Ma attenzione: in materia di vincitori e vinti nell’agone olimpico (e nella vita) l’onnipresenza della TV cambia le carte in tavola. Alla fine della gara gli sconfitti sono comunque protagonisti: hanno la loro finestrella in mondovisione dove, salvo eccezione, allegri e pimpanti, si producono in un mucchio di brillanti chiacchiere e scuse marce: è il trionfo della mistificazione e la conferma del terzo segreto (apocrifo) di Fatima: “il Maligno perderà l’umanità attraverso uno specchio magico”. Le pastorelle, un secolo fa, non potevano saperlo: era l’invenzione della televisione a colori: per il nostro sollazzo e per la gioia dello sponsor: l’americano Quincy Hall, e il botswano Tebogo, grande nei 200m, mostrano alle telecamere in modo ostentato, senza vergogna, le loro miracolose ciabattine, come fece il finlandese Lasse Viren a Monaco di Baviera nel 1972, rischiando la squalifica. Si salvò dicendo che aveva le vesciche ai piedi.
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