Di Amjad Iraqi, il manifesto
Il duplice assassinio del comandante di Hezbollah, Fuad Shukr, a Beirut, e del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, sono stati atti di follia strategica o di deliberata piromania. Mentre Israele ha rivendicato la propria responsabilità per il primo e mantenuto un certo mistero sul secondo, non vi è alcun dubbio che abbia orchestrato entrambi – e persino alcuni dei suoi alleati credono che, questa volta, gli israeliani abbiano esagerato.
I politici israeliani sono stati rapidi a cogliere il pretesto per un attacco di alto livello contro Hezbollah – un attacco missilistico dal Libano che ha ucciso 12 bambini e giovani drusi siriani nelle alture del Golan occupate, per il quale Hezbollah ha negato il proprio coinvolgimento – nonostante i residenti locali protestassero vigorosamente contro gli appelli alla rappresaglia. Shukr e Haniyeh erano certamente membri chiave dei loro rispettivi gruppi, ma Israele sa bene che entrambe le organizzazioni hanno meccanismi interni e piani di emergenza per sostituirli; dopotutto, questi non sono certo i primi omicidi che i due movimenti hanno subito.
Fondamentale è che, come hanno dichiarato Hassan Nasrallah di Hezbollah e l’Ayatollah Ali Khamenei dell’Iran, l’uccisione di due figure di spicco in capitali straniere, eseguita nel giro di poche ore, è stato un messaggio inequivocabile che ha infranto le cosiddette “linee rosse” stabilite tra le parti in lotta negli ultimi 10 mesi. Ora, il mondo trattiene il fiato in attesa di una ritorsione a un gioco di potere non necessario, avvicinandoci sempre più a una conflagrazione come non ne abbiamo viste da decenni.
Gli effetti volatili dell’arroganza militare di Israele sono stati chiari fin dai primissimi giorni dell’“Operazione Spade di Ferro”, la brutale campagna lanciata sulla Striscia di Gaza dopo il mortale attacco del 7 ottobre di Hamas. Ma la politica internazionale ha sempre dato più peso all’uccisione di leader simbolici che a quella di civili.
Infatti, sebbene il 7 ottobre abbia trascinato l’intero Medio Oriente in un vortice violento, ci è stato ripetutamente detto che la soglia di una “guerra regionale” non è stata ancora superata. Gli attori in lotta, insistono gli esperti, stanno ancora giocando un gioco rischioso ma calibrato per ristabilire la “deterrenza” reciproca, consentendo certi livelli di violenza che possono ancora essere letti come un tentativo di evitare il caos totale.
In molti modi, tuttavia, questo è un trucco discorsivo che sminuisce l’orribile verità sul campo: siamo già nel pieno di quella guerra regionale da mesi. La prova è nei corpi e nei detriti che si accumulano a Gaza e nel sud del Libano, e nell’attivazione delle alleanze guidate dall’Occidente e dall’ “Asse della Resistenza” su più fronti – dalle navi da guerra statunitensi nel Mediterraneo alle milizie Houthi nel Mar Rosso, dai raid aerei israeliani in Libano a un attacco missilistico dall’Iran.
Questo conflitto può diventare infinitamente peggiore. Tuttavia, il motivo per cui gli attori internazionali si sono improvvisamente messi in azione la scorsa settimana è lo stesso per cui la guerra sta entrando nella sua fase più pericolosa: che alcune vite, e alcuni interessi, contano più di altri.
Per i governi occidentali, il principale pericolo posto dagli assassinii di Shukr e Haniyeh non è il numero imprecisato di arabi o iraniani che potrebbero essere uccisi in un’escalation delle ostilità. Se non altro, gli ultimi 10 mesi hanno dimostrato che finché i palestinesi erano le principali vittime, una guerra prolungata era uno stato di cose tollerabile, sebbene deplorevole. Di conseguenza, le capitali occidentali, in primis Washington, hanno rifiutato di fare tutto il possibile per frenare i combattimenti, preferendo invece guadagnare tempo affinché Israele tentasse di portare avanti i suoi obiettivi dichiarati a Gaza e in Libano, nonostante fosse chiaro che gli israeliani avrebbero fallito.
Ora, tuttavia, i governi occidentali stanno entrando nel panico. Non temono solo ciò che una escalation potrebbe comportare per l’ordine globale, incluso alimentare il caos della sicurezza e interrompere le catene di approvvigionamento economico. C’è anche la prospettiva molto reale che una tale guerra possa comportare un enorme bilancio di vittime israeliane – e con essa, l’indebolimento senza precedenti dello stato di Israele.
Questo processo di decadimento o è probabilmente cominciato all’inizio del 2023, durante le battaglie interne del paese sulla riforma giudiziaria dell’estrema destra, ma è stato rapidamente accelerato dal 7 ottobre e dall’operazione a Gaza. I pieni danni dell’attuale intervento militare di Israele e la sua perdita di prestigio globale devono ancora emergere, ma un grave attacco di Hezbollah o dell’Iran probabilmente peggiorerà quel declino.
Anche se alcuni in Israele ammettono che l’esercito potrebbe aver esagerato, l’ego nazionale potrebbe costringerli a rispondere di nuovo; il ministro della Difesa Yoav Gallant sta già ordinando all’esercito di prepararsi per una “rapida transizione verso l’offensiva”. Il costante desiderio di regolare i conti e rivendicare una qualche forma di vittoria può prevalere su qualsiasi motivazione per deporre le armi.
Ci si sarebbe potuti aspettare che i leader israeliani riconoscessero l’avvitamento della spirale, con l’economia del paese in calo, l’esercito stanco e lo sfollamento della sua popolazione del nord e del sud. Ma questi leader sono troppo accecati dalle ambizioni ideologiche, dall’arroganza nazionalista e dalla paura per la propria sopravvivenza politica per considerare una via diversa dal militarismo e dalla retorica bellicista.
Non è solo Benjamin Netanyahu, il cui stesso gabinetto per la sicurezza ammette che il primo ministro sta direttamente sabotando un accordo con Hamas per il rilascio degli ostaggi. Da Gallant al Capo di Stato Maggiore delle Idf Herzi Halevi, gran parte della classe politica e militare ha un interesse in una qualche forma di prolungamento del conflitto. Tutti loro erano in carica il giorno in cui Israele ha subito il suo peggior fallimento nel campo della sicurezza da decenni, e tutti stanno combattendo per ripristinare le loro reputazioni, se non le proprie carriere; credono che un’emergenza senza fine possa aiutare a prolungare i loro giorni in carica.
Nel frattempo, i ministri di estrema destra del governo, guidati dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, stanno abbracciando la crisi per perseguire i loro obiettivi messianici. I loro elettori sul campo, principalmente coloni in Cisgiordania, stanno abbinando progressi legislativi per l’annessione formale a pogrom sostenuti dall’esercito contro le comunità palestinesi, consolidando la loro visione della Grande Israele e promuovendo piani per reinsediare Gaza.
Sono proprio questi funzionari che il presidente Joe Biden e altri leader occidentali hanno dotato di quasi totale impunità, nonostante ogni indicazione dei loro scopi ulteriori, dei loro crimini di guerra palesi e persino del crescente risentimento da parte dello stesso pubblico israeliano. Per 10 mesi, i governi più potenti del mondo hanno fatto finta di nulla e si sono dichiarati impotenti, fingendo di avere poca influenza su uno stato che è alla ricerca di più armi, fondi e sostegno diplomatico per la sua offensiva. E Biden, anche se sta rendendosi conto di quanto sia stato “ingannato” da Netanyahu, ha comunque mantenuto aperti i rubinetti degli Stati uniti, assicurando che le redini del potere restino nelle mani dei pazzi e dei piromani.
Ora, Washington e, tra l’altro, i firmatari arabi degli Accordi di Abramo, stanno raccogliendo i frutti amari di uno dei loro più grandi errori: abbracciare l’idea che bypassare i palestinesi avrebbe spianato la strada alla pace regionale. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha frantumato quella convinzione errata, ma l’amministrazione Biden non ha ancora imparato la lezione.
Infatti, gli Stati uniti hanno preferito lanciare attacchi aerei nello Yemen e in Iraq, minacciare i tribunali più alti del mondo e assecondare Netanyahu a Washington con ovazioni, piuttosto che costringere Israele a un cessate il fuoco a Gaza. Il fatto che milioni di manifestanti in tutto il mondo siano scesi per le strade delle città e nei campus per chiedere la fine della guerra fin dai suoi primi giorni, e che l’amministrazione Biden non lo abbia fatto, mostra quanta più lungimiranza abbiano i cittadini comuni rispetto ai decisori seduti alla Casa bianca.
Ma la catastrofe non è inevitabile. Nel vuoto diplomatico lasciato dagli Stati uniti, altri hanno fatto passi avanti negli ultimi mesi per cercare di arginare le conseguenze. Il Qatar sta ancora mediando i negoziati tra Hamas e Israele, nonostante quest’ultimo insulti regolarmente e mini gli sforzi dei suoi ospiti, assassinando ora uno dei principali negoziatori dell’altra parte.
La Cina, che tradizionalmente si teneva lontana da un profondo coinvolgimento nel conflitto, ha facilitato gli ultimi sforzi per la riconciliazione palestinese, quando 14 fazioni, tra cui Fatah e Hamas, hanno firmato una dichiarazione di unità a Pechino il mese scorso. Il nuovo governo britannico guidato dal Labour ha invertito i tagli del suo predecessore all’Unrwa, ritirato le sue obiezioni alle richieste di mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, e sembra essere vicino a sospendere alcune vendite di armi a Israele.
Un dato importante è che la Corte Internazionale di Giustizia abbia riconosciuto la plausibilità di un genocidio in corso a Gaza, ha dichiarato senza equivoci che l’occupazione israeliana è illegale, e ha richiesto azioni decise per porre fine a essa. E il Procuratore della Cpi Karim Khan sta aspettando il via libera per ordinare a Netanyahu e Gallant di comparire al processo all’Aia, insieme al capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar (che, se i rapporti sull’uccisione del comandante Mohammed Deif sono veri, è ora l’unico sospettato di Hamas ancora in vita).
Tutte queste sono misure minime rispetto alla massiccia influenza di Washington, o alle capacità di esercitare pressioni economiche e politiche più serie che altri governi detengono ancora. Ma sono indicatori della direzione infine intrapresa dalla politica internazionale. Gli Stati uniti non devono ritrovarsi a rincorrere questi cambiamenti: per andare avanti devono accettare la verità che il loro alleato più prezioso nella regione – e il potere stesso degli Stati uniti – è stata una fonte più di devastazione che di pace.
I palestinesi, per parte loro, sono in inferiorità numerica, privi di armi e superati dalle forze regionali e globali al di fuori del loro controllo, subendo una campagna genocida più distruttiva della Nakba del 1948. Le campagne di morte di Israele hanno fatto a pezzi ogni famiglia palestinese a Gaza, trasformato gran parte della Striscia in valli di macerie, e condannato 2 milioni di persone assediate, metà delle quali bambini, a una vita di traumi fisici e psicosociali.
Hamas sta sopravvivendo attraverso la sua resistenza armata e i suoi organi politici, ma ha subito pesanti colpi militari, perso gran parte della sua legittimità internazionale dopo i massacri del 7 ottobre, e sta lottando per mantenere il controllo e il sostegno nella stessa Gaza. L’Autorità Palestinese guidata da Fatah ha dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di aiutare il suo popolo, incollata al suo ruolo di forza di polizia dell’occupazione mentre scivola rapidamente nella bancarotta politica e finanziaria.
Tuttavia, i palestinesi hanno anche dimostrato di avere un potere sproporzionato di fronte a queste barriere colossali – e devono esercitarlo di conseguenza. Mentre la priorità principale è garantire la sopravvivenza dei palestinesi a Gaza contro missili, fame e malattie, è anche fondamentale affermare la loro azione politica in un momento in cui attori esterni – dall’esercito israeliano agli stati arabi e occidentali – stanno elaborando piani per dettare il loro destino.
Come tale, la dichiarazione di unità di Pechino è un’iniziativa cruciale, sebbene imperfetta, su cui mobilitarsi. Sebbene il presidente Mahmoud Abbas e i suoi lealisti probabilmente cercheranno di ostacolare gli sforzi di riconciliazione, molti membri di Fatah e Hamas stanno riconoscendo l’urgente necessità di cooperare per ristabilire la loro legittimità e preservare i controllo palestinese delle proprie questioni. La società civile palestinese dovrà esercitare pressioni sulle élite affinché traducano le loro dichiarazioni in azioni concrete, insistendo al contempo sull’apertura di vie per la partecipazione popolare e democratica.
Gli sforzi per stabilire un consiglio di ricostruzione di Gaza, guidato dai palestinesi e sostenuto da aiuti finanziari e tecnici dall’estero, dovrebbero essere elevati per garantire che la Striscia non diventi un campo di gioco per interferenze straniere, né da parte dell’Occidente né dell’Oriente. Sarà anche necessario elaborare un piano per sviluppare un apparato di sicurezza nazionale che integri le forze di sicurezza di Fatah, la polizia di Hamas e altri gruppi armati per avere la capacità e la credibilità per ristabilire l’ordine e la sicurezza tra la popolazione.
Le questioni di stato e i negoziati di pace non dovrebbero essere la priorità o la precondizione di questo programma nazionale: la sopravvivenza, la riabilitazione e la riorganizzazione devono avere la precedenza. E gli attori internazionali devono rispettarlo.
Ma tutto questo avrà poco significato se i palestinesi rimarranno prigionieri delle dinamiche geopolitiche che hanno ostacolato la loro causa per un secolo e portato la regione sull’orlo della calamità. Per quanto i poteri occidentali possano aggirare il problema, un cessate il fuoco a Gaza rimane la pietra angolare per la de-escalation regionale, e la liberazione palestinese il progetto per la speranza regionale.
La Palestina non è certamente il primo epicentro delle battaglie regionali del Medio Oriente, ma potrebbe essere la spaccatura finale che frantuma qualsiasi parvenza di ordine internazionale che non ha impedito una tale guerra. Ciò che accadrà dopo sarà definito da ciò che accadrà a Gaza, e i palestinesi devono impossessarsi degli strumenti per dargli forma.
Nell’immagine: Teheran, una donna passa davanti a un manifesto governativo