Normandia, per favore un po’ di silenzio
La ‘mia’ Normandia e il desiderio di un ottantesimo anniversario diverso
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La ‘mia’ Normandia e il desiderio di un ottantesimo anniversario diverso
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• – Boas Erez
In nome della comune “difesa della civiltà cristiano-ebraica”, predicata anche da Netanyahu, le alleanze cambiano: l’anti-islamismo degli iper-nazionalisti di destra sostituisce l’antico antisemitismo
• – Aldo Sofia
Non si può passare sotto silenzio l’operazione di mercoledì scorso. Quattro ore di diretta SRF… per far contenta l’ udc
• – Fabio Dozio
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• – Franco Cavani
A vedere quanto sputano i calciatori (nell’indifferenza di Infantino & Co.) il dubbio è lecito. Dai Pascoli del Cielo’ Capo Seattle cala il cartellino rosso
• – Libano Zanolari
Una lezione dalle rievocazioni per l'ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia
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• – Redazione
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• – Silvano Toppi
Il PS ticinese a congresso l'8 giugno per ridefinirsi dopo la scissione del 2022 - Di Martino Rossi
• – Redazione
La ‘mia’ Normandia e il desiderio di un ottantesimo anniversario diverso
No, perché io ho negli occhi e nella memoria una “mia” Normandia, un “mio” D Day, una memoria tormentata. Per la prima volta c’ero andato, lungo le spiagge dello sbarco alleato (alba del 6 giugno ’44), alla ricerca di tracce dell’unico “svizzero” registrato e caduto fra i soldati britannici falciati dai nazisti sulle spiagge di Sword Beach o Sold Beach, gli arenili dell’attacco inglese (Utah e Omaha quelli degli americani, Juno dei canadesi, e ancora Sword dei francesi).
Quello svizzero, origine grigionese, famiglia emigrata da Poschiavo nel Regno Unito, si chiamava Fanconi, Arturo Fanconi. Volontario, non aveva mai sparato un solo colpo, ma ugualmente aveva deciso di arruolarsi fra i sanitari della marina di sua Maestà. Venne ucciso tre settimane dopo aver messo piede nel nord della Francia. In un campo fuori la cittadina di Quinéville, campo minato, dove il 28 giugno era entrato per la terza volta, deciso a recuperare i corpi di alcuni fanti inglesi. Colpito da un cecchino tedesco, o saltato su un ordigno, non ricordo. Il piccolo museo di Quinéville gli ha dedicato targa e foto.
Fu solo la mia prima volta sui luoghi del “giorno più lungo”. Ci tornai ancora. Per lavoro, ma soprattutto per fatti miei. Senza voglia di raccontare nulla. Solo di tacere. Tacere come davanti alle migliaia di croci bianche, e candide stelle di Davide, di cimiteri estesi a perdita d’occhio. E chiedersi, ogni volta, quali idee, quali convinzioni, quale fegato o quale incoscienza dovessero avere quei giovani, e i loro commilitoni sopravvissuti, a rischiare scendendo in acqua, poi sul bagnasciuga, quindi sulla lunga spiaggia verso le alte falesie, da cui i tedeschi mitragliavano, prima per trovare un rifugio ai piedi della ripida salita, e poi per dare l’assalto ai bunker nemici, a piedi o con inverosimili scale di corda.
Non so in quali ideali credessero. Non so se era soltanto patriottismo. Non so se al patriottismo si unisse un’idea certa, cosciente, motivata di lotta al “male assoluto” rappresentato dall’ideologia razzista e iper-suprematista del Terzo Reich. Nemmeno erano al corrente delle camere a gas, o sapevano assai poco. Si sarebbero viste solo alla fine della guerra. Di certo, erano estranei agli eventuali o reali calcoli geo-politici dei loro leader, visto che in realtà, mentre ci si scannava sui faraglioni di Normandia (“fortezza naturale”), già era cominciato il braccio di ferro del dopo-guerra. Era difficile trovare risposte sicure. E nemmeno mi sembravano così importanti. Per capire cosa, poi, che non fosse stato detto dieci, cento, mille volte, a piacimento delle proprie conoscenze e delle proprie convinzioni?
Tacere. E avrei pensato che, otto decenni dopo, proprio questo sarebbe stato l’anno in cui fosse giusto e utile parlare di meno, in cui celebrare il minimo possibile, in cui pensare soprattutto sul fatto che la guerra è di nuovo qui, già ci lambisce, con conseguenze ancora soltanto economiche e con parole sdoganate come merce qualsiasi: come se evocare il rischio di guerra tattico nucleare alle porte di casa non dovesse incontrare una sorta di nodo in gola, un sussulto di consapevolezza, quantomeno una faticosa pausa. Almeno per una volta tanto poi la solfa riprenderà, senza troppo soffermarsi sulla disputa di chi sia il più responsabile, di chi più di altri non voglia la pace, di chi pretende una vittoria militare e riconquiste di dominii a tutti i costi , di chi si serve della Storia come se fosse la cosa più semplice, facile e utile da manipolare. Insomma, zitti, almeno per un giorno, zitti.
Anche perché lungo le spiagge di Omaha, Sword, Juno mancava quest’anno, per la terza volta consecutiva, qualcuno che rappresentasse ‘l’altra parte’. Quella russa. Perché mentre nel nord della Francia si consumava ad inizio giugno ‘44 la disumana sfida fra gli eserciti alleati e quello di Rommel (restìo generale delle truppe naziste in Normandia, che pagherà con la vita), ad Est l’Armata Rossa continuava la sua offensiva verso Varsavia e Budapest, Vienna e Berlino, contando alla fine della vittoria sul nazismo da 20 a 25 milioni di morti russi: russi prima ancora che sovietici, “patrioti” più che “compagni”, perché ai patrioti e non tanto agli iscritti comunisti si era appellato Stalin dopo 10 giorni di assoluta paralisi e afonia avendo appreso del tradimento tedesco dello scellerato Patto Molotov-Ribbentrop (e relativa violenta spartizione della Polonia).
No, riecco, proprio il 6 giugno, Ovest e Est ancora abbarbicati lungo la nuova cortina di ferro, divisi anche nella memoria. Mai come oggi. Mai più di oggi. “Loro” con le sfilate di maggio; “noi” con le spiagge del 6 giugno. Ripiegati ognuno nelle sue paure, nelle sue aggressività, nella pretesa di un posto nella Storia, nel suo nuovo colonialismo, nel suo assurdo senso di superiorità. Allora, per un giorno almeno, sarebbe stato il caso di tacere, dire proprio il minimo indispensabile, niente retorica e più dignità. Niente polemiche su torti e ragioni. Che tanto, quelle, riprenderanno, e riprenderemo a sciorinare già da domani.
Nell’immagine: il ricordo di Antonio Fanconi nel museo di Quinéville
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