Di Claudio Tito, La Repubblica
Un vero e proprio processo. Sul banco degli imputati, il primo ministro ungherese Viktor Orbán. L’accusa: tentare di “svendere” l’Ucraina alla Russia e mettere in pericolo la democrazia europea. Oggi il Coreper, il comitato che a Bruxellesriunisce gli ambasciatori dei 27 Stati membri dell’Ue, ha inserito il “caso Budapest” nel suo ordine del giorno, alla voce “varie”. Perché ormai il premier magiaro e le sue visite a Mosca e Pechino sono diventate una questione da affrontare e chiudere rapidamente. I leader europei presenti al summit Nato (compreso lo stesso Orbán) ne hanno parlato informalmente. E la prima conseguenza messa in campo è il “boicottaggio” di fatto della presidenza ungherese. I primi vertici informali lo stanno confermando: molti Paesi delegano i funzionari anziché assicurare la presenza dei ministri. Nessuno, insomma, vuole farsi coinvolgere nelle manovre orbaniane.
Il capo ungherese è ormai diventato una spina nel fianco dell’Ue e anche una scheggia impazzita dentro l’Alleanza Atlantica. Al punto che diversi Paesi europei stanno valutando di revocargli la presidenza di turno dell’Unione. Procedura possibile ma molto complicata. Che richiederebbe un voto del Consiglio europeo, ossia l’istituzione che ha approvato il calendario dei turni. Ma si tratterebbe di un iter lungo e sterile. È vero, però, che in base ai Trattati europei la presidenza di turno dovrebbe lavorare in coordinamento con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e con l’Alto rappresentante, Josep Borrell. Le missioni svolte nei giorni scorsi sono invece di segno opposto. Per non parlare della necessità di concordare la linea con il cosiddetto “Trio”, ossia la presidenza di turno precedente e quella successiva: Belgio e Polonia. Ed è proprio il governo di Varsavia ad aver alzato la voce contro Orbán per la sua pericolosa amicizia con Putin e per l’ostilità nei confronti dell’Ucraina.
Il primo ministro ungherese, poi, si è mosso facendosi portavoce di un soggetto esterno alle istituzioni, ossia l’ex presidente Usa Donald Trump. È stato il giornale russo Izvestia a confermare quel che Repubblica aveva anticipato: Orbán si muove su mandato del Tycoon americano. «Vuole trasmettere a Trump – si legge sul quotidiano di Mosca – una certa sintesi delle posizioni russe e cinesi». Un corto circuito ulteriore. Budapest agisce per conto di un soggetto che al momento non alcun ruolo effettivo e che ha già fatto sapere di voler disarticolare la Nato, ossia la protezione militare occidentale, piegare l’Unione europea e arrivare alla pace in Ucraina consegnando Kiev al Cremlino. In una lettera inviata cinque giorni fa a Michel, Orbán non ha fatto mistero di ritenere che ora ci siano «maggiori possibilità di un’accoglienza positiva di tutte le possibili proposte per un cessate il fuoco e per una roadmap per i colloqui di pace». Nella convinzione che il tempo favorisca la Russia sul piano militare, ripete che «un’iniziativa europea» è indispensabile poiché «la leadership politica degli Usa è limitata a causa della campagna elettorale». Insomma tutto in netta contraddizione con le posizioni occidentali.
I capi di governo dell’Ue presenti a Washington hanno allora convenuto sulla necessità di adottare delle contromisure. Arginare subito l’attivismo di Orbán in politica estera piantando in profondità una serie di paletti già al Coreper che contesterà la legittimità delle visite compiute in questa prima settimana di presidenza. Ma il “caso Budapest” resta comunque più ampio. Non è un caso che, oltre alla richiesta avanzata da alcuni paesi, tra cui la Polonia, di revocare all’Ungheria il semestre di presidenza (soluzione come detto complicata), torna in discussione l’eventualità di attivare il famigerato articolo 7 che prevede la sospensione dei diritti a disposizione di uno Stato membro: la sostanziale espulsione dall’Unione. Un’ipotesi un tempo considerata solo scolastica e che ora sta entrando a pieno titolo nel dibattito tra i partner. Un provvedimento che può essere giustificato dalla violazione dei principi fondamentali dell’Unione, come il rispetto della democrazia e che richiederebbe in Consiglio europeo un voto a maggioranza qualificata di quattro quinti, ossia 22 Stati membri su 27. L’avviso è lanciato.
Nell’immagine: i due compari