Parigi 2024, Giochi di pace in tempi di guerra
Lo sport non può esercitare un potere salvifico rispetto alle carenze della politica internazionale. Tende piuttosto a rifletterle e a rispecchiare le tensioni
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Lo sport non può esercitare un potere salvifico rispetto alle carenze della politica internazionale. Tende piuttosto a rifletterle e a rispecchiare le tensioni
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• – Libano Zanolari
Lo sport non può esercitare un potere salvifico rispetto alle carenze della politica internazionale. Tende piuttosto a rifletterle e a rispecchiare le tensioni
Si sapeva in anticipo. La sicurezza — interna e collegata ai conflitti internazionali — è destinata a dominare le Olimpiadi di Parigi. I sabotaggi alla rete ferroviaria francese lo confermano, colpendo un obiettivo più facile della suggestiva cerimonia di apertura, super-protetta. E aumentando il malumore medio dei francesi per un mega-evento che dovrebbe dare grande lustro al Paese, ma proprio quando la Francia è consumata da una impasse politica con pochi precedenti.
Separare sport e politica, del resto, è praticamente impossibile. L’ ideale di Pierre de Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne (1896), era di tenere i giochi olimpici fuori dai conflitti. La vocazione pacifista e universalista dello sport avrebbe permesso di sospendere, come nella tregua ellenica delle origini (ekecheiria), le guerre fra nazioni.
Questo ideale è continuato fino ad oggi; ma la realtà è che non ha mai funzionato. Guardando solo alla politica internazionale, i conflitti hanno sempre fatto irruzione nelle varie edizioni dei giochi olimpici. La richiesta di una “tregua olimpica”, avanzata dalle Nazioni Unite, è stata regolarmente disattesa.
Anche questa volta: Parigi si apre mentre continua la guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina (febbraio 2022, in coda ai giochi invernali di Pechino) e mentre Netanyahu difende negli Stati Uniti la risposta israeliana su Gaza all’attacco di Hamas (per la sicurezza francese l’incubo è una qualche riedizione di Monaco 1972). Intanto continuano conflitti più o meno dimenticati (Sudan, Congo, Siria, Myanmar).
Tutto questo purtroppo non sorprende: è chiaro, infatti, che lo sport non può esercitare un potere salvifico rispetto alle carenze della politica internazionale. Tende piuttosto a rifletterle. E a rispecchiare le tensioni. I giochi di pace avvengono in tempi di guerra, con le loro conseguenze anche per le Olimpiadi.
Accade da sempre, come dimostra la pratica dei boicottaggi e delle esclusioni. Si può perfino risalire al 424 a.C.: l’esclusione di Sparta dai giochi ellenici, decretata da Atene a causa della guerra del Peloponneso.
Nei tempi moderni, i tedeschi e gli altri grandi sconfitti della Grande guerra vennero esclusi dai giochi dei primi anni Venti. Cosa che poi non impedì al Terzo Reich, dopo l’ascesa al potere di Hitler, di organizzare le Olimpiadi del 1936, immortalate dal celebre documentario di Leni Riefenstahl.
Negli anni della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica fece la sua prima apparizione alle Olimpiadi (1952). Aiutata dalla grande finzione del dilettantismo di Stato (gli atleti olimpici non erano ancora “professionalizzati”) l’Urss vide nello sport, così come nella corsa allo spazio, un terreno di competizione sistemica con gli Stati Uniti.
Nel 1956 l’invasione sovietica dell’Ungheria spinse una serie di Paesi europei a boicottare i giochi di Melbourne. Scelta che fecero anche Egitto, Iraq e Libano ma per protestare invece contro l’intervento franco-britannico a Suez.
Le tensioni più forti si ebbero a Mosca 1980, quando più di 50 Paesi condivisero il boicottaggio deciso dal presidente americano Carter dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Seguì Los Angeles 1984, con il contro-boicottaggio sovietico.
Nelle ultime edizioni, la Russia di Putin ha prima pagato il doping di Sochi (Olimpiadi invernali del 2014) e poi l’aggressione all’Ucraina: a Parigi, i pochi atleti russi partecipano a titolo individuale, senza bandiera e inno nazionale.
La Russia di Putin ha appena organizzato giochi paralleli, nel circuito dei Brics. Secondo Patrick Clastres, studioso del movimento olimpico, il rischio è che lo sport non regga allo scontro fra autocrazie e democrazie, fino al momento in cui diventerà impossibile svolgere giochi davvero globali.
Non è ancora così. Ed è difficile, guardando alle posizioni di Pechino — decisa a competere direttamente con gli Stati Uniti per il primato nel medagliere — che uno scenario del genere si concretizzi in tempi rapidi. I giochi olimpici pongono piuttosto il quesito, tipico della politica internazionale, di cosa spieghi il successo o il declino di una nazione (sportiva). Se il momento unipolare (dominio assoluto degli Usa) è stato superato con l’ascesa della Cina (consacrata dalle Olimpiadi di Pechino del 2008), altri attori competitivi fanno fatica ad emergere.
È il caso dell’India, gigante demografico, potenza economica in crescita, ma nano olimpico. Cosa che non piace affatto a Narendra Modi, che ha dichiarato con aria di sfida che il suo Paese non si accontenta certo di partecipare ma intende vincere più medaglie possibili. Con tanti saluti al celebre detto di De Coubertin.
Lo sport è in fondo l’autobiografia di una nazione. Emmanuel Macron cerca di affermare la sua narrazione di una Francia aperta al mondo, che crede in sé stessa e che è in grado di organizzare giochi sicuri, economicamente sostenibili e green. Che segnano, prima di Milano/Cortina, il ritorno delle Olimpiadi in Europa. Le condizioni di partenza e i primi segnali — interni e internazionali — non sono certo ideali. Speriamo che il resto lo faccia soltanto lo sport.
Nell’immagine: fotomontaggio della redazione
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