Perché è scomparsa la razionalità e l’opinione pubblica è diventata emotiva
C’è un disperato bisogno di una difesa delle società aperte e delle democrazie liberali
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C’è un disperato bisogno di una difesa delle società aperte e delle democrazie liberali
• – Redazione
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• – Redazione
C’è un disperato bisogno di una difesa delle società aperte e delle democrazie liberali
C’era una volta l’opinione pubblica… Potrebbe essere l’esemplare – ancorché, a questo punto, un po’ nostalgico e sconsolato – inizio di una storia. Quella di questi nostri tempi in cui la sfera pubblica sta vivendo tali e tante trasformazioni da apparire sempre più irriconoscibile. Modificata, anzi trasfigurata, dal «medium dell’eccitazione» di cui scriveva ieri nel suo editoriale il direttore di questo giornale, Andrea Malaguti. Come ricordava Denis McQuail, i mezzi di comunicazione di massa sono nati per massimizzare l’audience e, in tal modo, i profitti dei loro editori, ma nella società occidentale post-illuministica sono stati investiti anche del ruolo di contribuire in maniera decisiva alla formazione dei cittadini-elettori e alla costruzione della sfera pubblica. L’informazione, si sa, è al medesimo tempo circolazione di idee e merce.
E, dunque, l’elemento della sollecitazione (e del vellicamento) delle emozioni del pubblico – dallo scandalismo al sensazionalismo – sta già scritto nel Dna di una stampa che dalle gazzette dei philosophes passava all’industria editoriale nell’accezione moderna delle dinastie dei tycoons di Londra e New York che si inventarono i tabloid popolari e la yellow press. Così come, naturalmente, non si è mai data nel corso della Storia successiva alle rivoluzioni liberali del Settecento nessuna sfera pubblica in stile «repubblica dei filosofi» di Platone – sulla cui democraticità, peraltro, analogamente a tutte le forme di epistocrazia, si devono nutrire alcuni legittimi (e fondatissimi) dubbi. La sfera pubblica – prendendo a riferimento la sintesi magistrale che ne diede Jürgen Habermas in famoso libro del 1962 (Storia e critica dell’opinione pubblica) – è sempre stata, a dire il vero, uno spazio “emozional-razionale”, nel quale le emozioni (a cominciare dalle passioni politiche) hanno sempre posseduto un peso significativo. Nondimeno, alla fine, a prevalere – specialmente in virtù della presenza delle figure degli intermediari (dagli intellettuali ai giornalisti, dai politici ai funzionari sindacali) – era, come indicava appunto Habermas, la razionalità discorsiva. Certo, la mediazione introduceva un nodo critico, poiché la sfera pubblica consiste nel dialogo intorno a questioni di rilevanza collettiva da parte di individui liberi nel loro pensiero, ma la parabola temporale dell’opinione pubblica rappresenta (anche) una storia di fruttuose contraddizioni. E, soprattutto, un elemento imprescindibile di questa evoluzione coincide con la «pubblicità mediata», garantita giustappunto dai mezzi di comunicazione che permettono la condivisione degli argomenti e dei temi di cui discutono i cittadini (alimentando potenzialmente, altresì, il rischio della loro distorsione, come all’inizio degli anni Venti avevano già evidenziato Walter Lippmann ed Edward Bernays).
Attualmente viviamo sprofondati in una sovrabbondanza straordinaria di mezzi di comunicazione, quella che contraddistingue l’ecosistema mediale ibrido, e nei vari stadi ulteriori della democrazia del pubblico, senza però che la tanto auspicata crescita di consapevolezza generale si sia verificata. Anzi, siamo di fronte alla minaccia di finire stritolati – per ricorrere alla dicotomia segnalata da Andrea Malaguti – fra l’intelligenza artificiale e la violenza reale. Quella evocata a cuor leggero da vari pifferai magici e imprenditori irresponsabili della politica (innanzitutto populista) per attirare consensi sublimando le frustrazioni infinite, le aspettative illimitate andate deluse e le degenerazioni di quanto, a fine anni Settanta, Christopher Lasch (un conservatore serio e innamorato del modello democratico) aveva profeticamente chiamato la «cultura del narcisismo». Perché, nel frattempo, è accaduto che l’overdose mediale generata dal web ha sostituito l’«emozione pubblica» all’opinione pubblica, nel cui ambito, in verità, le opinioni non risultavano tutte equivalenti o interscambiabili – come nell’odierno stadio dell’opinionismo rancoroso e non informato –, ma, per riscuotere adesione, dovevano sottoporsi al vaglio del dato di realtà o, quanto meno, del confronto intersoggettivo. E non costituivano il frutto del delirio di onnipotenza delle monadi – i singoli dell’età liquida e della solitudine globale – che si trincerano dietro gli schermi digitali e si rinchiudono nelle loro corazze cognitive per difendersi dalla precarietà dilagata in tutti i campi dell’esistenza, fino (nei tanti, troppi casi peggiori) a trasformarsi in leoni da tastiera, odiatori seriali, complottisti di ogni risma e “Napalm51”. La contemporanea post-sfera pubblica – o “di transizione” (sebbene, a naso, non precisamente verso lidi migliori) – si regge sull’apologia della disintermediazione, ma ha introdotto nuove (e più subdole e invisibili) formule di re-intermediazione. E, nella domanda dopata di comunicazione istantanea, ha instaurato il primato di «una sfera pubblica emozionale» dove urlare è divenuto sinonimo di autenticità, e vari leader politici incitano alla polarizzazione e praticano la politica dell’inciviltà. Esattamente – per fare un esempio – come quei genitori, loro elettori, che aggrediscono insegnanti e arbitri, e disprezzano le regole comuni della convivenza, non sapendo minimamente dominare le proprie emozioni.
Ecco, qui non si sta esprimendo nessuna nostalgia dei “bei tempi andati” (che pullulavano di altre problematiche), né si vuole operare alcuna demonizzazione a senso unico dei social media. E, tuttavia, a proposito del tramonto dell’Occidente, disarticolato dai molteplici paradossi interessati del postmodernismo, va evitato l’errore di gettare il bambino da educare anche razionalmente all’autonomia e al senso di solidarietà con l’acqua sporca dei lasciti difettosi di questa parte di mondo. Perché adesso di una riscoperta aggiornata della razionalità (limitata, circoscritta e plurale finché si vuole) e di una difesa dell’universalismo e dell’idea della società aperta delle democrazie liberali ce ne sarebbe un disperato bisogno. Altrimenti, dentro la sfera pubblica (troppo) piattaformizzata, ci ritroveremo “magari” tra non molto con una maggioranza di “veri credenti” nella terra piatta.
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