Ho letto in questi giorni, con quarant’anni di colpevole ritardo, lo straordinario saggio di una altrettanto straordinaria giornalista, Tina Merlin (1926-1991),
Sulla pelle viva, sottotitolo
Come si costruisce una strage. Il caso Vajont. Uscito nel 1983, il libro è stato ristampato nel 1997 da Cierre Edizioni di Verona e costituisce una fondamentale – e unica – testimonianza per capire che cosa accadde realmente prima e dopo la notte del 9 ottobre 1963, quando il monte Toc franò nelle acque del bacino idroelettrico del Vajont, da poco realizzato con la costruzione della grande diga che sbarrava il passo all’omonimo torrente.
Le acque tracimarono e risucchiarono parzialmente in pochi secondi terreni e case dei paesi Erto e Casso, riversandosi subito dopo sul fondovalle e spazzando via, con una gigantesca catastrofica ondata, Longarone, in provincia di Belluno, e con le case del paese la vita di duemila persone. La diga portatrice di morte, all’epoca celebrata come miracolo dell’ingegneria, resse all’impatto. E il miracolo si tramutò in un’immensa tragedia per colpa degli uomini.
Il Vajont e i suoi duemila morti, una strage di Stato
Tina Merlin, dalle pagine del quotidiano del Partito comunista l’Unità, fu l’unica giornalista a denunciare con forza, già negli anni precedenti, i rischi legati alla costruzione della diga. Fece emergere, con decine d’inchieste, precise responsabilità da parte del governo democristiano e degli industriali, chiamando in causa ministri, tecnici ministeriali e dirigenti della Sade prima (Società adriatica di elettricità) e dell’Enel poi (Ente nazionale energia elettrica). Inutilmente. Anzi, di fronte a una stampa totalmente asservita ai poteri politici e industriali, la giornalista fu denunciata e processata per la «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». Il Tribunale di Milano l’assolse con formula piena.
Fu evidentemente una vittoria amara. Se la coraggiosa Tina fosse stata ascoltata, quei morti sarebbero stati sicuramente evitati. Ma prevalse, tra mille connivenze, la ragion di Stato. E del Profitto, in un’Italia che arrancava per rimuovere le macerie della guerra. Per questo, a distanza di tanti anni, si può affermare, con la pacatezza del giudizio storico, che quella del Vajont fu un’orrenda strage di Stato.
La giornalista aveva al suo fianco un intero popolo che si ribellava alla realizzazione della diga, in primo luogo i contadini di Erto e Casso, profondi conoscitori di quella montagna capricciosa, dalle cui profondità ciclicamente s’irradiavano improvvisi boati e scosse di terremoto. Per nulla da alcuni secoli la chiamavano Monte Toc, che nel dialetto friulano significa “marcio, guasto”. «La toponomastica locale», scrive Merlin, «rivela antiche saggezze dei primi abitanti insediatisi nella valle, conoscitori di terreni e di rocce, assai più esperti degli “esperti” venuti dopo».
Scilla e Cariddi in agguato nello Stretto di Sicilia
La lettura di Sulla pelle viva, che caldamente consiglierei alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro Matteo Salvini, mi ha portato a fare qualche riflessione su quanto sta accadendo in questi mesi nel Bel Paese un po’ più a Sud, nello Stretto di Messina, quell’incantevole braccio di mare che divide la Sicilia dalla Calabria.
La saggezza popolare, con un salto non più di secoli ma di millenni, lascia spazio alla mitologia e alle reminiscenze omeriche che collocavano sulle due sponde dello Stretto la terribile coppia Scilla e Cariddi: la prima era un repellente gigantesco mostro dotato di sei spaventose teste e 12 piedi; viveva in una grotta nutrendosi dei corpi dei naviganti che di là transitavano. La seconda, una nefasta creatura marina capace di risucchiare e rigettare le acque tre volte al giorno e con esse le imbarcazioni.
I naviganti che attraversavano lo Stretto avevano il loro bel daffare per scansare le insidie di quel tratto mortifero di mare, come sperimentarono i mitici Argonauti sotto la guida di Giasone e, dopo di loro, Ulisse con i suoi compagni. Una volta superati tutti i rischi “allora incontro ti verran le belle spiagge della Trinacria isola, dove pasce il gregge del Sol, pasce l’armento”. L’Odissea, libro XII (versi 85 e seguenti, nell’aulica ma pur sempre suggestiva traduzione di Ippolito Pindemonte) ben descrive i pericoli di quelle acque, rappresentati nella leggenda da Scilla e Cariddi, nella realtà provocati da vortici, contrasti tra correnti marine, raffiche di vento. E terremoti.
Un’opera faraonica, la sfida dell’uomo alla Natura
Il paragone sorge spontaneo: come l’uomo del XX secolo sfidava il monte Toc, così quello del XXI vuole sfidare Scilla e Cariddi con un’opera colossale che colleghi il continente con l’isola dove “pasce il gregge del Sol”: il benedetto o famigerato, a seconda dei punti di vista, ponte stradale e ferroviario. Per uomo del XXI secolo s’intende qui – ci mancherebbe altro – non tanto il ministro pro-tempore delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, sul quale, per carità cristiana, mi asterrò dall’esprimere giudizi, bensì genericamente e simbolicamente l’uomo contemporaneo, spinto da un desiderio di progresso sempre più accelerato. Un progresso senza vincoli, consumistico, avulso dalla complessità dei contesti in cui egli si trova ad operare.
La prima idea del ponte, in verità, risale addirittura a due secoli fa, quando nel 1840 il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, incarica un gruppo d’ingegneri di studiare la fattibilità del progetto, e viene ripresa dopo l’Unità d’Italia. Ma è accantonata in seguito al disastroso terremoto di Messina del 1908 e al conseguente maremoto con onde alte 8-10 metri. I quasi centomila morti frenano le ambizioni di Casa Savoia e dei governanti, e ricordano drammaticamente che quella è una delle aree sismiche a più alto rischio d’Europa. Già nel febbraio-marzo 1783 la Calabria meridionale e la città di Messina avevano pagato un prezzo altissimo di vittime, forse 50.000, e di distruzioni per una serie di devastanti ondate sismiche che si protrassero per molti giorni. Non sono i gorghi e i venti che decimavano le flotte ai tempi di Ulisse a preoccupare, ma la faglia attiva che potrebbe provocare altre tremende catastrofi.
C’è anche chi pensa a un tunnel sottomarino
Si torna tuttavia a parlare del ponte in ambito politico negli anni tra le due guerre, valutando anche l’alternativa di un tunnel sottomarino. A partire dal 1952 si muovono i primi passi concreti con un progetto presentato dall’Associazione costruttori italiani in acciaio, preso in considerazione nel 1955 dalla Regione Siciliana. Nello stesso anno viene costituito il Gruppo Ponte di Messina S.p.A., partecipato da Fiat, Pirelli, Italcementi, Italstrade, Finsider.
Da quella data ha inizio una lunga e inestricabile serie di provvedimenti governativi, interventi tecnici, modifiche societarie, accordi tra enti spesso disattesi. L’idea del Ponte si trasforma in una macchina mangia-soldi che passerà indenne da un governo all’altro. Finché nel 1969 il Ministero dei Lavori pubblici bandisce un concorso internazionale d’idee per l’attraversamento dello Stretto con un’infrastruttura stabile che sostituisca il sistema dei traghetti. Vengono presentati 143 progetti e il Ministero elargisce in pompa magna 12 premi, con grande spreco di denaro pubblico.
L’11 giugno 1981, mentre è presidente del Consiglio, dimissionario, Arnaldo Forlani, nasce la Società concessionaria Stretto di Messina S.p.A., con la partecipazione di IRI (Istituto per la ricostruzione industriale fondato da Mussolini e poi soppresso) e di ITALSTAT, la finanziaria dell’Iri, al 51 per cento per cento, e il 49 per cento ripartito tra Ferrovie dello Stato, ANAS (Azienda nazionale autonoma delle strade statali), Regione Siciliana e Regione Calabria, ognuna con il 12,5 per cento. La Società Stretto di Messina non tiene in alcun conto i progetti dei vincitori del concorso 1969 e dà incarico per la progettazione a un gruppo di tecnici di fiducia, scelti senza concorso pubblico.
Silvio Berlusconi entusiasta sostenitore del Ponte
Nel frattempo, si succedono al Governo il repubblicano Giovanni Spadolini, i democristiani Amintore Fanfani, Giovanni Goria, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti, il socialista Giuliano Amato, e finalmente nel 1992 si arriva a un progetto preliminare definitivo. Attenzione: “progetto preliminare definitivo”. Su quell’aggettivo, “definitivo”, si gioca un assurdo tira-e-molla che dura ancor oggi, tipico di un’Italia pressapochista eternamente incapace di fare scelte fondate su una ragionata visione d’insieme; incapace di valutare le priorità richieste del Paese, i rischi, i costi, i benefici, l’impatto sull’ambiente.
Nel 1994, con l’insediamento del Governo presieduto da Silvio Berlusconi, entusiasta sostenitore del Ponte (che succede a Carlo Azeglio Ciampi), il Consiglio superiore dei lavori pubblici ottiene il via libera delle Ferrovie dello Stato e dell’ANAS, ma è soltanto nel 2003, sotto il secondo governo Berlusconi, che il progetto preliminare, dopo alcune modifiche, viene messo a gara. Vince l’appalto, nel 2005, l’associazione temporanea d’imprese capeggiata da Impregilo, oggi Consorzio Eurolink (capofila Webuild), per un importo di tre miliardi e 880 milioni di euro su una base d’asta di quattro milioni e mezzo. Ma Romano Prodi, che da presidente dell’Iri era favorevole al ponte, succeduto a Berlusconi nel maggio 2006, blocca l’iter, che riprende poi con il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi nel maggio 2008.
Campata unica lunga 3.666 metri, record mondiale
Nel luglio 2011 la Stretto di Messina S.p.A. approva il progetto definitivo: un ponte a campata unica lungo 3.666 metri e largo 60 – il più lungo del mondo – con due carreggiate stradali e una linea ferroviaria ad alta velocità. Il progetto è stato elaborato da una équipe di ingegneri diretti dall’inglese William Brown.
Ma ecco un nuovo colpo di scena. Con l’ennesimo cambio di governo, dopo che già erano stati aperti i cantieri per alcune opere propedeutiche con largo e inutile dispendio di risorse pubbliche, nell’ottobre 2012 Mario Monti sospende di nuovo il progetto, stanziando 300 milioni di euro per le penali da pagare alle imprese, e il 15 aprile 2013 mette in liquidazione la Società Stretto di Messina.
Altri cambi della guardia si succedono a Palazzo Chigi: nel 2016 Matteo Renzi rilancia senza esitazione l’idea del ponte, ritenendola un’infrastruttura fondamentale e prioritaria, mentre più cauto è il suo successore Giuseppe Conte, in via di principio non contrario all’opera, che affida la questione a un Gruppo di lavoro, con un nulla di fatto.
A fare ripartire il progetto con piglio risoluto, nel 2023, ci pensa il governo (il sessantottesimo della storia repubblicana!) presieduto da Giorgia Meloni. Il Ponte s’ha da fare. Punto a capo.
Primo atto: con un decreto-legge, quindi con atto d’urgenza, poi convertito in legge, viene resuscitata la Stretto di Messina S.p.A. Il Governo ripesca il progetto definitivo (ma non esecutivo) del 2011 e nomina un nuovo Consiglio d’amministrazione e un nuovo Comitato scientifico. La Società concessionaria dà incarico al Consorzio Eurolink di aggiornare il vecchio progetto. Impresa non certo facile da realizzare, considerato che le tecnologie e le conoscenze scientifiche nell’arco di 13 anni hanno compiuto passi da gigante. I lavori vengono dunque riaffidati d’ufficio, senza un nuovo bando, alla società vincitrice della gara 2011, la quale, dopo lo stop di Monti, aveva avviato un contenzioso con lo Stato chiedendo un risarcimento di 700 milioni di euro.
Centoventimila posti di lavoro, anzi no, 50mila
Il ministro Matteo Salvini interviene a gamba tesa, evidentemente pregustando le “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria conseguenti alla realizzazione del Ponte. Annuncia l’apertura dei cantieri entro il 2024 e la conclusione dei lavori entro il 2032. Sbandiera – a caso – il numero dei posti di lavoro necessari: prima 120mila, poi 100mila, infine 50mila. In realtà saranno decisamente meno, forse 20mila. Salvini ha fretta, molta fretta. Nell’aprile di quest’anno viene pubblicato il bando degli espropri dei terreni sui due lati dello Stretto, circa 370 ettari divisi tra 1.500 proprietari, che prevede anche l’abbattimento di 500 edifici.
I costi, intanto, sono lievitati a 14 miliardi di euro e mezzo, quattro volte quelli previsti nel 2005. È logico pensare che questa cifra aumenterà ancora alla luce delle ultime decisioni governative.
L’iter burocratico procede tra mille intoppi
Il percorso burocratico per arrivare al progetto aggiornato si rivela una corsa a ostacoli difficile da superare, troppo complessi sono i nodi da sciogliere e i tempi si allungano. Occorre soprattutto dare risposta alle 68 “raccomandazioni” del nuovo Comitato scientifico per rendere esecutivo il progetto, riguardanti soprattutto la sicurezza di un’opera colossale unica al mondo, sulla quale eminenti esperti internazionali hanno espresso più di una perplessità. Esse comprendono anche le “raccomandazioni” del Comitato scientifico 2011, peraltro mai recepite.
L’interrogativo di fondo riguarda la fattibilità del Ponte in una zona caratterizzata da faglie attive che nel tempo hanno alterato i fondali dello Stretto. Le ultime ricerche degli studiosi confermano l’alta pericolosità sismica dell’area, che potrebbe da un momento all’altro scatenare scosse dell’intensità di quelle disastrose dei secoli scorsi. C’è anche da dare seguito alle 239 integrazioni richieste il 15 aprile di quest’anno dalla Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale facente capo al MISE, Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. Insomma, il ping-pong burocratico tra tecnici ministeriali e consorzio costruttore è ben lontano dalla conclusione. Altro che inizio lavori entro il 2024! Di fronte a un fiume di critiche, Eurolink e Stretto di Messina S.p.A. da parte loro rassicurano: nessun problema, sul piano tecnico e della sicurezza non esiste alcun rischio.
Il Governo forza la mano ignorando l’Anticorruzione?
Che cosa fa il Governo in una situazione che rischia di andare fuori controllo? Approva il 29 giugno un nuovo decreto-legge, che modifica quello del 2023. In pratica: il progetto verrà probabilmente spezzettato e realizzato per fasi. Come dire: avanziamo per gradi senza aspettare che tutte le procedure siano completate. Poi si vedrà.
A guastare i sogni di Meloni & Salvini ci si mette anche l’ANAC, Autorità nazionale anticorruzione, il cui presidente, in un’audizione alla Camera dei deputati dell’8 luglio, espone una serie di pesanti critiche sulla gestione generale del progetto, sui finanziamenti, sulla volontà del Governo di procedere per fasi costruttive, sul riaffidamento diretto dei lavori a Eurolink in contrasto con le normative europee. Il Governo, tranne ripensamenti dell’ultima ora, sembra deciso a tirar dritto, infischiandosene dei rilievi dell’ANAC.
Le opposizioni protestano senza grande determinazione, se si escludono gli esposti alla magistratura presentati da Angelo Bonelli, segretario di Alleanza Verdi Sinistra, ai quali si è aggiunta una class action presentata in giugno da 104 persone. Intanto monta la protesta popolare, soprattutto di coloro che si vedranno espropriare terreni e abitazioni. Il 10 agosto si sono radunate in piazza a Messina almeno cinquemila persone. “No al ponte delle menzogne”, sintetizzava uno striscione. Non ha dubbi Renato Accorinti, ex sindaco della città: «È uno sperpero di denaro pubblico mostruoso. È offensivo: sarà peggio dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, perché ogni variante sono miliardi, una mammella infinita di denaro dove un ruolo importante lo svolgeranno i subappalti e le mafie».
Milena Gabanelli, quest’opera «non si può fare»
E l’informazione? Dov’è la Tina Merlin del XXI secolo? La grande stampa sembra indifferente se non assente in una vicenda che richiederebbe la massima attenzione e documentazione, con le solite poche eccezioni. Tra queste, Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, sul quale Pino Corrias, il 1° giugno, tuonava contro il Ponte: «In cinquant’anni è diventato il più costoso modellino di plastica e cartone mai costruito al mondo. Quello vero dovrebbe cavalcare la zona più sismica d’Europa fidandosi di un progetto fermo al 2011, dove insistono venti, turbolenze e correnti peggiorate dai cambiamenti climatici. Tre costosissimi chilometri di acciaio e cemento sospesi sul vuoto, mentre sulla terra ferma di Sicilia e Calabria, ne mancano centinaia per i collegamenti ferroviari e autostradali. Senza contare che gli espropri per edificare i piloni di sostegno, gli asfalti di arrivo e di partenza, accenderanno i fuochi della rivolta». La documentatissima Milena Gabanelli, nel Data room sul Corriere della Sera del 28 maggio, spiegava da par suo, punto per punto, i motivi per cui il Ponte «non si può fare».
Staremo a vedere se Meloni e Salvini usciranno vincitori nella loro impresa oppure finiranno, come nell’epopea omerica, nelle grinfie di Scilla e Cariddi. C’è soltanto da augurarsi che in questa nuova rischiosissima sfida alla Natura non si debba ripetere in futuro, come nel libro sul caso Vajont, l’affermazione “come si costruisce una strage”.